Doveva essere l’ultimo anno, o il penultimo, della mia permanenza a San Martino. Mimmo lo conoscevo da prima: si aggirava orecchie tese, quasi annusando, nella parte della baraccopoli che occupavamo, attratto dalle luci e dalle voci che risuonavano fino a tarda ora. Abitava nella prima fila di baracche dopo la strada comunale. Capelli neri e orecchie a sventola. A volte lo seguiva un cane lungo dalle zampe storte, il cane lo avevamo battezzato Aliscafo. Forse Mimmo e Aliscafo non avevano niente da spartire e sono io che nella memoria li associo.
San Martino era la baraccopoli dove Mimmo e io abitavamo. L’ho raccontato nell’Infanzia è un terremoto. I miei genitori architetti si erano trasferiti laggiù dopo il sisma che distrusse la Valle del Belice. Facevano parte del Centro studi e iniziative di Lorenzo Barbera che lavorava per la pianificazione dal basso, la ricostruzione partecipata, lo sviluppo democratico. Abitavamo in una Comune. A San Martino erano state montate più baracche di quelle che servivano, molte famiglie del paese erano emigrate con i biglietti di sola andata pagati dallo Stato, così lo spazio non mancava: ogni coppia di adulti – fra di noi gli adulti andavano per lo più in coppie – aveva la sua abitazione privata. Noi bambini ne avevamo una tutti insieme. C’era poi una baracca per pranzo e cena, riunioni, attività collettive, ma buona parte della nostra vita era all’aperto, in quella specie di corte che formavano le baracche fronteggiandosi o i margini della baraccopoli. Subito dietro, verso nord, cominciava un terrapieno coltivato a ulivi: la terra rossa, le foglie scure di giorno e argentate di notte (ancora oggi, ogni volta che penso a Gesù nell’orto degli Ulivi, il campo è quello). Al mio arrivo compivo quattro anni, alla partenza ne avevo quasi otto. Come ho raccontato più di una volta, credo siano stati gli anni della mia formazione. Il resto della mia vita, consolidamento, trasmissione.
Mimmo ci impiegò anni a prendere confidenza con me. Ero una bambina piccola con ambizioni sconfinate: volevo mobilitare gli amici recalcitranti in tre ore circensi, immaginavo Saro sulla corda, Bicetta acrobata, Fifetta e suo fratello giocolieri. In un misterioso affiorare dello spirito coloniale distribuivo comunicazioni a firma La gentildonna selvaggia. Mio padre o mia madre mi avevano già letto Kipling? Di sicuro qualcuno mi aveva raccontato Tarzan. Poi, con Luca Barbera, in cui riconoscevo l’amico, il compagno che mi camminava a fianco, mi ritiravo sul terrapieno degli ulivi: ambientavamo fra la Bolivia e Cuba disordinate battaglie a soldatini, imitando gli adulti svelavamo le cause del fascismo italiano, della strage alla Banca dell’Agricoltura. Passavo tutto il giorno all’aperto, avevo i capelli spettinati, gonfi di polvere e salsedine, naso e mento all’insù. Dovevo avere un’attrattiva. Non ricordo come Mimmo mi si avvicinò. Ricordo che a un certo punto c’era. Alto, dinoccolato, con un sorriso sempre stampato in faccia e i denti che crescevano distanti.
In banda con i bambini più grandi – c’erano con noi ragazzi di dodici anni, età che mi sembrava vertiginosa –, dalle chiacchiere, dal sollevarsi di un sopracciglio, da uno sfottò, la stratificazione sociale della baraccopoli mi era stata chiarissima. Fra l’asse orizzontale della comunale e il terrapieno, c’era la zona «media», qui abitavano buona parte dei bambini che frequentavo. Al confine settentrionale il prestigio cresceva perché nelle ultime file di baracche c’eravamo noi. Gli stranieri continentali – non tutti, ma molti di noi lo erano – erano degni di reverenza, ma la reverenza andava a braccetto con l’irrisione. Come i miei compagni di giochi, distinguevo il mondo in poveri e furbi del sud con occhi a fessura e obiettivi immediati, e ricchi del nord con gli occhi grandi ingenui sgomenti per un nonnulla. Ma amavo le eccezioni, i poveri con gli occhi grandi e spogli di diffidenza, i ricchi magri con gli occhi desolati; la Comune era la casa delle eccezioni, anche Mimmo con il suo sgangherato sorriso forse lo era. Guardando verso il terrapieno, alla sinistra dell’asse verticale – una strada polverosa che a nord saliva verso la scuola e a sud scendeva verso chissà cosa – c’erano alcune famiglie «per bene», piccola borghesia locale, possidenti. Da lì venivano Bicetta e suo fratello Saro. L’area «buona» dava su un campo ai miei occhi sterminato di girasoli e poi sull’orizzonte. All’estremo est cominciava la salita che portava a un’altra ala della baraccopoli, ci abitavano Fifetta e suo fratello – i più estrosi, lui a volte vestito di lino a grandi fiori color mattone –, e anche lì si riproducevano le stratificazioni sociali che conoscevo. Al centro i medi, a ovest i buoni, a est insomma.
Ma la parte della nostra baraccopoli a sud della strada comunale era per noi quasi il confine del mondo conosciuto, l’hic sunt leones delle nostre giornate. Lì abitavano a detta di tutti – di tutti i bambini che conoscevo – i Malacarne. Contro alcuni degli abitanti dell’altrove – i Catramane, una nutrita covata di muscolosi maschi dalle teste rasate anti-pidocchi – avevamo scatenato una guerra senza quartiere, sassaiole, aggressioni fisiche, svettanti torri di insulti alle quali ognuno di noi portava rilanciando un contributo. Non c’erano individui nella massa dei Catramane, forse si scambiavano le teste, condividevano gli arti. La distanza fra noi e loro era siderale, mai sospettammo di essere della stessa specie. Solo l’età, la rozzezza delle armi preservò loro e noi dallo sterminio. Ma Mimmo era diverso. Intanto, abitava sì nella zona dei Malacarne, ma aveva i capelli e non era dei Catramane che anzi lo sdegnavano, poi la sua baracca dava sulla strada e guardava a nord, cioè guardava noi. La sua famiglia, la madre, sorelle e fratelli piccoli li vedevamo sempre sulla sedia davanti alla porta, la madre (o forse quella donna grassa era la nonna?) faceva le trecce alla bambina, lavava il pavimento di cemento a porta aperta. E poi Mimmo se lasciava la sua zona, veniva qui.
Adottammo Aliscafo, che si aggirava cercando il calore dell’abitato come tanti cani irrandagiti dal terremoto, lo scegliemmo perché era il più brutto di tutti, era deforme, si muoveva a fatica. Quando lo lavammo scoprimmo la pelle disseminata di zecche, fu una ragazzina svedese di cui ricordo il viso, lungo con gli occhi piccoli e vicini, e non il nome, a intervenire con l’etere, ma anche Mimmo fu pronto ad aiutarci. Anche lui salvava cani.
Mimmo c’era quando fu scoperto il mio furto, rubai mezzo girasole nel campo dietro l’ultima fila di baracche a ovest, e fu credo il solo, a parte mio padre, a non condannarmi.
Tutta questa premessa per raccontarvi il vero ricordo che ho di lui.
Siamo soli nella stanza di una baracca. La porta è chiusa. La finestra non me la ricordo. Nella mia memoria la stanza è liscia, senza finestre, bianca. Come ci siamo entrati? Sarà stato facile, nessuno controllava più di tanto i nostri movimenti, la baraccopoli era la nostra prateria: le baracche vuote si potevano scassinare, penetravamo in casa d’altri dalle finestre. Ma forse quella stanza faceva parte della baracca dei miei genitori. Avevo sette anni e mezzo credo, lui una decina.
Mi ricordo che camminammo sulle pareti e poi sul soffitto fianco a fianco, con leggerezza, senza fatica. Saliamo, scendiamo. La stanza, anche se non ha finestre, è piena d’aria, di flussi di vento azzurri, che salgono e scendono, creano vortici e Mimmo ed io ci lasciamo sollevare, trasportare. Ci tuffiamo, e giù a nuoto. Mimmo abitava dall’altra parte della comunale, aveva quei denti poco curati, quel sorriso che chiedeva sempre scusa, a lui, nel mio giro di bambini, si alludeva con un sorrisetto, con condiscendenza. Forse averlo così vicino m’imbarazzava e già proprio per quello mi entusiasmava, m’indeboliva le ginocchia. Ma è con lui che per la prima volta ho camminato sulle pareti e sul soffitto. E mai con nessun altro.
Come mai Mimmo veniva da noi, cosa lo attraeva? Forse si spingeva nel nostro territorio perché c’era Lorenzo che ascoltava i bambini come se avessero da dire cose essenziali? Forse perché c’era qualcuno, mio padre, mia madre, Paola, che leggevano storie e insegnavano a costruire archi e frecce? Forse perché c’era Nicola, anarchico che aveva lavorato in Belgio, che si circondava di bambini e chiedeva loro consiglio e insieme giudicavano il mondo. Forse perché ognuno di noi era vestito in un modo diverso, e le donne non portavano il lutto (perché non moriva nessuno?), forse perché nessuno picchiava i bambini? (tra adulti sì, si menavano, anche male). Dall’altra parte della strada, dove abitava lui, ma in tutta la baraccopoli, i bambini prendevano cinghiate. Sarà stato tutto questo a portarlo da noi, sarà stato il prestigio della gente studiata, della gente del settentrione. E chissà cos’è stata per lui quella nostra passeggiata sui muri. Un trofeo, un’iniziazione sessuale?
Non avrei mai avuto il coraggio di chiederglielo, neanche incontrandolo. Chissà se avremmo trovato io e lui una lingua comune. Ma non potrò più incontrarlo perché è morto. L’ho saputo qualche anno fa. Ci ho messo del tempo a capire che si trattava proprio di Mimmo. È morto negli anni Ottanta, a vent’anni. Mi hanno riferito che è stato ucciso dalla sua famiglia perché ha tentato di proteggere la sorella piccola (la bambina che stava davanti alla porta mentre la madre le intrecciava i capelli?), ha tentato di impedire che fosse costretta a prostituirsi. Conosceva le legnate, le cinghiate, chissà se immaginava una reazione così violenta da parte dei suoi?