Billy Mace aveva capito che voleva volare quando, a pochi mesi di vita, scivolò dalle braccia del padre Bobby planando, non si sa come, sull’unico metro quadrato del pavimento del salotto su cui si trovava un cuscino alto e morbido. Fu una caduta spaventosa ma poi Bobby si abbassò per riprendere il figlioletto, pronto a correre dal medico o all’obitorio, e si accorse che Billy stava ridendo.
Volare, da quel giorno, fu il più grande sogno di Billy. Quando nell’acciaieria suonava la sirena, che in altre parole voleva dire cibo, aria, pausa dal cazzo di acciaio, Billy usciva all’aperto e guardava il cielo. Contava le nuvole e gli uccelli. Constatava che a Londra il cielo era sempre troppo grigio, ma il desiderio di volare non lo abbandonò mai. Un giorno, quando Billy festeggiava il suo diciannovesimo compleanno, successero tre cose importanti in un colpo solo. Di quelle cose da cui non si torna indietro, nemmeno a fare finta di niente tappandosi occhi, orecchie e ogni altro orifizio. Bobby Mace, il padre di Billy, riuscì finalmente a battere il suo storico e temibile avversario Gulligham, bevendo una birra in più. Sedici a quindici. Sedici pinte in mezz’ora: un record assoluto. Bobby divenne quindi il campione in carica del quartiere di West Ham, con massima ammirazione da parte dei presenti. Contemporaneamente Billy, durante un estenuante turno di lavoro, fu colpito da un forte attacco di asma e, una volta portato d’urgenza dal medico che abitava nei pressi della fabbrica di acciaio dove lavorava, scoprì di essere un soggetto asmatico, appunto. Infine, scoppiò la seconda guerra mondiale.
Billy fu chiamato alle armi due giorni dopo, mentre lottava contro la tosse che gli chiudeva la gola e con gli occhi che pizzicavano più del solito. Aveva le mani nere. Le aveva strofinate sulla tuta da lavoro, consumata e puzzolente, ma niente. Lo sporco rimaneva attaccato alle sue falangi inesorabilmente. Si presentò così davanti a degli uomini in divisa militare che non aveva mai visto e che se ne erano fottuti delle sue mani sporche e anche del suo asma. Trattenne a fatica sputi e colpi di tosse per tutto il tempo necessario per far sì che questi uomini scegliessero chi dei ragazzi presenti nell’atrio della grande fabbrica facesse al caso loro. Billy fu indicato da un uomo muscoloso, con gli occhi quasi trasparenti, gli fu toccata una spalla e il giorno dopo prese in braccio per la prima volta un fucile. Carico.
Billy di notte, nel dormitorio a cui lo avevano assegnato, faceva sogni strani. Vedeva il padre, Bobby, che lo teneva per mano. Lui era piccolo e poi di nuovo grande. I due Billy si confondevano fra loro. Poi il padre lo lasciava cadere e tutto diventava nero e poi bianco e poi infuocato e allora Billy provava a volare ma riusciva solo a tossire, a sputare. Arrivava un uomo con la faccia blu e le mani verdi, imbracciava due fucili e gli insegnava a usarli. Billy gli diceva che lui voleva solo volare e allora l’uomo con la faccia blu lo faceva salire su un caccia militare e lui iniziava a sparare da lassù, in mezzo alle nuvole. Non si accorgeva della gente a terra che moriva o degli altri aerei che cadevano e si schiantavano giù. Lui era solo contento di volare. Che poi fu più o meno così che accadde. Che Billy si trovò a bordo di un aereo militare come copilota insieme a un ragazzo più grande di lui di soli tre anni, ma a quanto si diceva molto addestrato. C’era bisogno di forze e di uomini, gli avevano detto. Se Billy voleva volare avrebbe potuto farlo, a patto di stare sempre insieme con il fottuto baronetto figlio di ricchissimi proprietari terrieri inglesi che gli avrebbe insegnato a pilotare l’aereo. Billy si sentiva una cagna a stargli sempre appicciato, ma poi pensava a quando l’aereo sarebbe decollato, a quel piacevole brivido che gli avrebbe attraversato la spina dorsale arrivando fino all’attaccatura del collo, elettrizzando anche i suoi folti capelli. Quella sensazione di inspiegabile libertà e onnipotenza che lo coglieva sempre di sorpresa, gli faceva arrivare di nuovo l’ossigeno ai polmoni. Stavolta senza ostacoli e intoppi. Gli uomini, le donne, i bambini, i cani, le città, le montagne, i fiumi, il mare, da lassù erano piccoli, i problemi erano inesistenti, le preoccupazioni misere. Anche l’asma sembrava un ricordo ormai lontano quando planava e poi si ritirava su con una mossa da maestro.
Un giorno, erano passati due mesi dall’inizio della guerra, uno da quando Billy faceva parte dell’aviazione inglese, successero due cose degne di nota. Bobby Mace fu battuto dall’avversario Gulligham, il quale riuscì a bere ben due birre in più di lui, rischiando il collasso ma facendo esplodere il pubblico presente in un boato mai sentito prima. Contemporaneamente Billy fu incastrato dal fottuto baronetto, nonché primo pilota, a cui fu ordinato di sganciare una piccola bomba su una base militare tedesca. Si era spaventato, era tornato indietro, quasi piangeva come un neonato dal terrore, quando con una virata energica era tornato nei cieli inglesi. Tutti sapevano che il fallimento della missione era dovuto solamente al fottuto baronetto ma, viste le umili origini di Billy, la cui famiglia era composta interamente da operai impiegati nelle acciaierie, la versione ufficiale, riportata ai piani alti, fu che c’era lui al comando dell’aereo disertore. Billy da quel giorno non volò più.
L’asma era tornato, più forte di prima, più aggressivo, più bastardo. Billy bestemmiava tutti i santi che conosceva. E ne conosceva molti, pur non essendo un bravo cristiano. Batteva sull’acciaio, lo lavorava alacremente, prendeva calci e pugni dai superiori se rallentava un attimo, se tossiva, se si passava una mano sudata sulla fronte altrettanto madida. Bestemmiava e lavorava. Alla fine gli fu proibito di volare, ma nessuno poteva permettersi di perdere forza lavoro in quel momento critico. Tornò all’acciaio, come si torna a una dipendenza inevitabile, come se fosse la sua crudele maledizione. La sirena del libera tutti suonava sempre meno. Billy riusciva a vedere il cielo raramente ma, quelle poche volte, magari quando tornava nella catapecchia che i padroni delle fabbriche chiamavano casa, dove viveva stipato con altre dieci persone in pochi metri quadri, ripensava a come era bello stare in aria. Stare sospeso per non si sa quale miracolo della fisica, fra gli umani e Dio. Fra quel Dio che malediceva per non avergli fatto le ali per fuggire via da quello schifo di mondo. A volte, in bagno, seduto sul cesso consumato da altri centomila culi, Billy scriveva su pezzi di carta frasi e pensieri sparsi e disordinati. Poi se li infilava nelle mutande e andava a letto. Li nascondeva sotto il materasso. Erano l’unico sfogo che aveva. Gli piaceva scrivere anche tutto quello che aveva provato in volo, per cercare di non dimenticarselo mai. Ogni sera Billy si addormentava a fatica. Prima di abbandonarsi a un sonno lieve pensava a quanto, alla fine, facesse schifo la guerra.
L’anno successivo, sempre nel giorno del compleanno di Billy, Bobby Mace morì d’infarto, mentre era a un passo dal battere di nuovo il suo avversario Gulligham. Per rispetto della lealtà e generosità sempre dimostrata da Bobby, le nuove sfide del torneo furono rimandate a data da destinarsi e nessuno festeggiò il campione in carica Gulligham. Al funerale c’erano tutti quelli del quartiere. Anche Billy riuscì a prendere un permesso di qualche ora e andò a sedersi nella prima fila di panche in chiesa. Avrebbe voluto almeno una madre da abbracciare, la cui spalla in quel caso avrebbe fatto comodo per nascondere le proprie lacrime. Invece sua madre era scappata qualche anno prima che scoppiasse la guerra. Via dall’acciaio, dalle mani sporche e luride, da un uomo che come preoccupazione aveva solo quella di bere birra dalla mattina alla sera, da una vita meschina e insulsa. Forse aveva avuto più coraggio di lui, pensava Billy mentre aiutava altri ragazzotti a sollevare la grande bara di legno, trasportandola fuori e poi al cimitero. Sempre lo stesso giorno, nel pomeriggio, quando Billy era stato costretto a tornare in fabbrica, era arrivata Lei, che all’inizio e per un bel po’ di tempo non ebbe un nome. Lei vagava come un’anima candida e dispersa fra gli operai. Offriva loro un fazzoletto bianco per asciugarsi il sudore, un po’ d’acqua magari e dolci sorrisi. Sempre quel pomeriggio, prima che il suo turno finisse, Billy ebbe un nuovo e tremendo attacco di asma. Lei arrivò prontamente a chiedergli cosa avesse ma lui non riuscì a rispondere, visto che a malapena gli arrivava l’ossigeno ai polmoni. Era diventato viola, rosso e poi bianco, come un cadavere, come il fazzoletto che Lei continuava a porgergli. Aveva pensato di morire, Billy. Poi l’attacco era finito e Lei lo aveva baciato.
Lei si chiamava Elizabeth e aveva i capelli corti e ricci, di un biondo quasi irreale per poter sopravvivere lì, in quel marciume grigio e puzzolente. Beth, come si voleva far chiamare da Billy, nella fabbrica aveva la funzione della tuttofare, persino dell’autista che scortava i soldati da un’estremità all’altra della città. Ma la sua mansione principale era quella di rallegrare con la sua presenza gli operai, i quali effettivamente, da quando vedevano aggirarsi quella ragazza giovane e perspicace nei loro paraggi, avevano iniziato a lavorare con ben altro ritmo. Non sapevano che Beth, sebbene fosse gentile con tutti allo stesso modo, aveva dichiarato quasi subito il suo amore a Billy. Anche perché in fondo, sotto tutto lo strato di sporco e devastazione che segnava il suo corpo, il giovane Billy era un ragazzo affascinante: il fisico slanciato e un po’ ricurvo, il viso dai lineamenti pronunciati, ma eleganti. Billy pensò che forse c’era una cosa più bella di volare, che era innamorarsi, appunto. Quando Beth arrivava, con il suo fazzoletto bianco, a chiedergli come stava, a toccargli il petto come se bastasse quella manina piccola poggiata sui polmoni per farlo guarire dagli attacchi di asma, lui sapeva solo di amarla. E questo gli bastava. Non aveva mai chiesto niente a Beth delle sue origini, della sua storia e nemmeno lei lo aveva fatto con lui, anche se c’era poco da chiedere. C’era poco spazio per l’immaginazione. Lei gli aveva semplicemente detto che era una storia lunga, quella della sua famiglia. Che stavano fuori dal quartiere di West Ham, che ogni tanto infatti si sarebbe assentata per andare a trovare suo padre e per sbrigare alcune faccende. A Billy non importava dove dovesse andare Beth. Gli importava solo di quei baci che si davano di notte, prima di andare a dormire. Billy nella catapecchia, lei in una casetta più spaziosa che gli aveva concesso il padrone della fabbrica. Billy pensava che il suo sogno più grande in quel momento sarebbe stato volare, ma con Beth al suo fianco.
Un giorno successe che la guerra finì, ma per Billy non cambiò poi molto. Gli dissero che sarebbe dovuto restare molto tempo a lavorare in quella fabbrica. Stavolta per ricostruire tutto quello che era stato distrutto. Per fortuna che lì aveva Beth, pensava. Anche se i periodi in cui si assentava per andare a trovare i parenti verso il centro di Londra si dilatavano sempre di più. Allora lui, durante le sue assenze e le notti particolarmente insonni, stava fuori dalla sua catapecchia a guardare il cielo, senza vedere alcuna stella, a pensare a lei. All’ultima volta che avevano fatto l’amore, che poi era la prima. Si erano stesi in un prato vicino alla fabbrica, senza erba, quasi senza terra. Uno spazio scuro e vuoto che a loro era sembrato semplicemente un prato. Si erano tolti i vestiti ed era successo tutto. In un modo delicato, in un silenzio irreale. Forse c’erano dei rumori, delle grida, il continuo e incessante ronzio delle macchine a lavoro, bambini che piangevano, ma loro non avevano sentito nulla.
Successe che passarono due anni e che Billy continuò a lavorare duramente l’acciaio. La città era ricostruita, l’economia era ripartita di gran carriera, ma alla fine l’acciaio sarebbe sempre servito a qualcosa. Billy aveva ormai rinunciato a volare. L’unica cosa che gli importava veramente era stare con Beth. I suoi fazzoletti bianchi non erano più necessari, gli operai erano diminuiti in numero. Il padrone della fabbrica però la faceva stare lì, a zampettare fra i macchinari e i rifiuti, non si sa per quale motivo. Forse si era affezionato pure lui alla loro storia d’amore strampalata. Beth aveva detto a Billy di aver trovato finalmente lavoro come segretaria nel centro di Londra, visto che sapeva fare i conti e pure leggere bene, che sarebbe stata una cosa positiva per entrambi. Avrebbero potuto comprare una casa decente, fare dei figli, magari. Gli aveva detto che però doveva assentarsi un po’ più a lungo, quella volta. Billy, quando Beth aveva parlato di figli, era stato combattuto fra un entusiasmo quasi isterico e una profonda tristezza al pensiero che non avrebbero mai conosciuto i nonni paterni. Che Bobby non avrebbe mai potuto tediare il nipote con la storia delle birre. Ma poi le aveva detto semplicemente va bene, ti amo, torna presto.
Un giorno però, come per uno strano segno del destino, sempre nel giorno del compleanno di Billy, Gulligham, lo storico avversario di Bobby Mace, morì in un tragico incidente. Un sorso di birra di troppo gli andò di traverso e così, strabuzzando gli occhi e rovesciandosi sul tavolo di legno davanti a lui, abbandonò la vita terrena. Contemporaneamente Billy ricevette la notizia più brutta della sua vita. Beth era tornata nel quartiere dopo due lunghe e interminabili settimane. Quella mattina lo salutò in un modo dolce che strideva con la sua faccia stranamente sconvolta, gli avvicinò la bocca all’orecchio destro, gli disse auguri e poi aggiunse che non si sarebbero più visti, che non poteva spiegargli il perché, ma che presto avrebbe capito. Se ne andò così, lasciandolo a martellare l’acciaio, a desiderare di morire in quel momento, di essere fulminato. Lo lasciò incredulo, disperato e solo. L’ultima immagine che Billy conservò di lei fu quella sagoma snella che abbandonava per sempre la fabbrica dove per anni avevano consumato un amore silenzioso. Billy non aveva potuto vedere, però, le lacrime che sgorgavano dal viso di Beth, una volta che si era voltata, andandosene per sempre da quella fogna di posto.
Billy Mace tornò ad abitare in quella che era stata la casa del padre quando, a soli ventisei anni, il suo asma divenne tanto grave da non permettergli più di lavorare l’acciaio. Il padrone della fabbrica aveva però scoperto che era parecchio bravo a scrivere, visto che qualche suo compagno di stanza aveva ritrovato fra lenzuola e materasso tutti i suoi scritti segreti, sbandierandoli ai quattro venti. Il padrone avrebbe tenuto Billy per scrivere lettere e documenti. Gli aveva detto che poteva farlo anche da casa, saltuariamente, in modo da riposarsi e placare la tosse maledetta. Billy decise così di abbandonare quel posto letto fatiscente e di tornare nel vecchio appartamento sgangherato di famiglia. Un giorno Billy accese la radio, che era l’unica cosa che si era conservata integra in mezzo alla muffa e alla desolazione. Straordinariamente quel giorno a Londra splendeva il sole, gli uccelli si rifugiavano fra i rami degli alberi cantando piacevoli melodie e Billy era intento a scrivere una lettera. Quel giorno la vita di Billy cambiò per sempre.
Dalle casse dell’apparecchio una voce a lui troppo familiare annunciava il suo imminente matrimonio con il principe Filippo, promettendo che, nel caso fosse diventata regina d’Inghilterra, alla morte del suo vecchio padre Giorgio, si sarebbe impegnata per la pace e la serenità del suo popolo, vista la recente uscita dalla guerra e vista la sua vicinanza ai giovani militari, ai giovani operai e servitori della patria, di cui lei stessa aveva fatto parte per tre anni. Disse così Beth, con voce emozionata e tremula. Alla radio. A lui, rannicchiato alla sua scrivania e, contemporaneamente, a tutto il mondo. Billy rimase immobile ad ascoltare tutto, a dirsi che non era possibile che fosse una principessa, la principessa Elizabeth, futura regina di Inghilterra, proprio quella Beth che aveva amato nel giardino senza erba. Che non glielo avesse mai detto. Che non era possibile che quella Beth non sarebbe più tornata, che si sarebbe dimenticata in fretta e per sempre di lui.
Al matrimonio quel giorno c’erano tutti. C’era anche Billy, fuori. Teneva un cartello all’altezza del petto con su scritto «Beth, sono Billy». Lei, per un attimo, sembrò incrociare il suo sguardo, o almeno cercarlo, speranzosa e rammaricata insieme, fra la folla. Non seppe mai che era lì. Con quel cartello che ancora oggi Billy, mentre vaga per la città di Londra, chiedendo a uomini e donne sconosciuti qualche spicciolo per una birra, con la barba lunga e l’asma incalzante, tiene appeso al collo.
Billy Mace voleva volare
di Arzachena Leporatti
Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 25 e ha le etichette Arzachena Leporatti, Colla25. Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.