A casa mia è da ormai non ricordo più quando che dopo ora di pranzo, dall’una e mezza in poi diciamo, le luci si spengono e le ombre si allungano da sotto i mobili, e avvolgono ogni cosa in quella penombra appiccicosa da brutta giornata di primavera. Così, tutti qui si ritirano nelle loro camere, e ti cade addosso quel torpore letargico ch’è veramente difficile da scrollarti via. Alla fine qualsiasi cosa tu abbia da fare puoi sempre farla più tardi, hai ancora tutto domani e dopodomani, la vita davanti. Un riposino al pomeriggio è un tempo breve in proporzione.
Noi lo chiamiamo il pisolino pomeridiano. Che di per sé andrebbe anche bene, se solo non fosse che quando ti alzi sono praticamente le sei, ed è ormai troppo tardi per considerare quel che rimane una vera e propria giornata. Hai l’odore di sonno attaccato addosso, e quello che vorresti è solo una doccia calda per togliertelo dalla bocca, se poi non fosse che da non ricordo più quando c’è qualcosa che non va nella caldaia, e l’acqua calda non dura che cinque minuti, ed è impossibile fare la doccia in quattro di fila, e saranno anni che papà dice che bisogna chiamare un idraulico, ma fatto sta che l’idraulico non l’abbiamo ancora chiamato.
Pensate che persino la ragazza di mio padre, giovane e sempre sorridente, che la ricordo quanta vita aveva dentro quando per la prima volta si è timidamente affacciata sulla porta di casa tenendo stretta la mano di papà, e da quel giorno ha fatto di tutto, mai ferma, sempre su e giù per le scale a tirar via la polvere da sotto i mobili come le ombre al pomeriggio, a controllare che nei bagni gli asciugamani fossero sempre puliti, persino lei all’inizio ci ha provato. Invitava papà ad andare a fare una passeggiata per i campi, dopo pranzo, e ricordo di una volta che s’è messa lì a fare i compiti con mia sorella. Persino lei a un certo punto ci ha rinunciato, e adesso parla anche nel sonno, di pomeriggio.
Tant’è che quando squilla il telefono, come accadde quel giorno, o qualcuno ad esempio suona il campanello e noi tutti siamo immersi nella fase più profonda del sonno, succede che c’è sempre un primo momento di stallo in cui si combatte silenziosamente ognuno dalle proprie postazioni pisolino, per decidere chi debba andare a sentire quale sia la novità, già disillusi perché alla fine è quasi sempre il postino, o l’indiano della pubblicità, tutt’al più il prete che qui da noi passa ancora per le case a chiedere chi vuole la benedizione. Quello che voglio dire è ch’è davvero terribile alzarsi così di soprassalto, come da un incubo nel pieno del pomeriggio.
Ormai immagino sia chiaro che io non sono molto d’accordo con questa cosa, ma dovete credermi, è veramente difficile resistere quando sei lì, seduto al tavolo dopo una porzione anche normale di pasta al pomodoro, e guardi in faccia tua sorella e tuo padre e la sua fidanzata e lo leggi già nei loro occhi, che tutto quello che vogliono adesso è andare a dormire, e anche se ti dici che no, questa volta no, poi alla fine è sempre sì, e tutto quello che ho potuto fare per diciamo protestare contro questa abitudine è stato decidere di non mettermi proprio a letto sotto le lenzuola, ma di appisolarmi sul divano, rigorosamente vestito, e quando mi alzo ho sempre il mal di schiena perché non è un vero riposino quando te ne stai tutto rannicchiato in salotto, con la luce seppur tenue che passa dalle finestre, senza chiudere le tapparelle né, che so, metterti una sciarpa avvolta intorno alla testa. E mi sembra assurdo pensare che quando andavo all’università tornavo a casa la sera tardi, dopo un’intera giornata di studio, tutto in modo molto costante, e la stanchezza la sentivo solo quando mi sdraiavo a letto per alzarmi poi il giorno dopo, sempre così, e ora invece non ho un granché da fare, e in ogni momento mi sento come se stessi cercando di sollevare un macigno, cucino il pranzo, leggo qualcosa, al massimo spazzo un po’ le foglie del giardino, ch’è diventato ormai praticamente una foresta, con la siepe che ha mangiato i lampioncini, e l’erba a sgranocchiare gli interstizi delle mattonelle, e papà continua a ripetere che prima o poi bisognerebbe dargli proprio una bella potata.
Tutto questo per dire che quel giorno, quando saranno state le due e mezza, suona il telefono, ed è mia sorella che si alza e va a rispondere, e io, già nel dormiveglia, quello che sento è qualcosa tipo «Zia? Quale zia?» e poi la sera, a tavola davanti alla televisione, siamo tutti così storditi che nessuno se la ricorda neanche più la chiamata, e ci passa di mente.
Il giorno dopo a pranzo, la fidanzata di papà dice che è venuta una signora a cercarci, ma non sa dirci molto di più perché la signora era perplessa e non riusciva proprio a capire chi fosse quella sconosciuta che aveva aperto la porta, per quanto lei (la fidanzata di papà) dice di averglielo detto alla signora, di essere la fidanzata del signor Galli, quello il cui nome era stampato sul citofono, ma la signora non sembrava essere convinta e se n’è andata, e tutta la situazione era così ambigua che alla fine papà ha stretto le spalle e ha detto «Porca miseria», poi ha guardato l’orologio e ha esclamato «Ma pensa te», e così ce ne siamo andati tutti a goderci il nostro meritato pisolino pomeridiano, con la penombra già pronta ad afferrarci le caviglie.
Papà ha un modo tutto suo di dire porca miseria, alzando appena le sopracciglia e facendosi sobbalzare gli occhiali sul naso. A me piace guardare mia sorella, reagire con un accenno di quel sorriso che quando era una bambina alta così dovevate vederla, uscire di casa tutta contenta, la mano della mamma stretta nella sua, la mamma che aveva quello stesso sorriso, ed è quando penso a cose come questa che mi piacerebbe leggere di nascosto le cose che la sera dopo cena mia sorella digita freneticamente sul suo cellulare, sapere a chi le scrive, per quanto forse basterebbe solo chiederlo a lei.
La domenica, che è il giorno di fare la spesa, papà e la sua fidanzata escono la mattina presto, e si dimenticano sempre di comprarmi quei cereali con la frutta secca dentro. Poi il pomeriggio è sempre il solito, e la sera mangiamo la pizza surgelata, che so che sembra una vergogna ma vi assicuro che dovreste provarla. È come mangiare qualcosa di diverso dalla pizza, una cosa a sé diciamo, che non esclude che tu possa andare poi una sera quando capita anche in pizzeria e prenderti invece una bella pizza come si deve.
Quello che volevo arrivare a dire è che poi il giorno dopo che la signora s’è presentata al citofono e se n’è andata, saranno state non so le quattro del pomeriggio, stavo sognando di provare una folle necessità di correre in giro a strappare più fotografie possibili in questa casa enorme che pur essendo diversa pareva somigliare a casa nostra. E a un certo punto suonano il campanello e mi alzo di soprassalto ed è terribile perché sei subito sveglio così d’un tratto e sono sceso a rispondere al citofono.
«Chi è?»
«Leonardo?»
«Chi è?»
«Sono la zia, Leonardo. Apri la porta.»
Io ho aperto la porta, e oltre il cancelletto c’era questa signora vestita come si vestono i vecchi, con i colori sbiaditi e i maglioni impeluccati, che mi lancia un gran sorriso e apre le braccia come se potesse abbracciarmi da là e mi dice «Apri», e io le apro non so neanche perché, e lei in quattro e quattr’otto attraversa il giardino e mi abbraccia, con addosso uno di quei profumi dozzinali che vendono dai cinesi.
«Ti sei fatto grande! quanti sono, ventisei?» dice, e cerca di guardarmi in faccia tenendomi il mento con una mano in un gesto d’affetto invasivo. Sguscio via e mi infilo in casa e lei mi segue. Si guarda intorno, come se conoscesse come le sue tasche quel posto. Poi arriccia il naso e cammina dritta fino a un interruttore della luce, quasi nascosto dietro un quadro attaccato storto, e il soggiorno si illumina come non lo avevo visto da un po’ di tempo, e mi sembra persino di notare oggetti sui mobili che non pensavo neppure più esistessero.
«Mi sembra tutto come sempre» dice la donna con le labbra rosse scuro, tipo lamponi. Mi sorride, mi chiede di non fare così, su, di farle un tè, e allora io non mi sento di dirle di no e mi metto a vedere se nella dispensa riesco a trovare una bustina di tè o camomilla. È solo che nella dispensa non trovo niente e glielo devo dire, mi scuso, e lei dice che è uguale, tira un gran sospiro, e si siede al tavolo della cucina e dice anche a me di sedermi e io mi siedo e lei incrocia le mani.
Mi guarda non proprio dritto negli occhi, poi dice più o meno «Senti, è brutto dirlo in questo modo dopo tanto tempo però, sai, con lo zio le cose sono andate così così ultimamente, sempre di più da quando ho saputo che l’azienda alla fine lo zio l’ha fatta andare allo scatafascio, e se il nonno lo sapesse… e così adesso ci hanno tolto la casa, e io non me la sono sentita di rimanere con lui, con lo zio, e lo so che tu c’eri affezionato e infatti questo non deve cambiare niente però vedi di questi tempi è veramente difficile per una donna sola senza figli come me. A tua madre dicevo sempre che avrei voluto vederti giocare con dei cuginetti, fare insieme le vacanze al mare, ma poi sai come va la vita, e in pratica non riesco a pagarmi l’affitto e mi sono ricordata che tanti anni fa tua mamma è venuta da me e mi ha chiesto per favore se potevo prestarle settecentomila lire perché doveva comprare un regalo per l’anniversario con tuo padre… l’anniversario, ci credi? saranno stati almeno vent’anni fa, di lì a poco sarebbe rimasta incinta di te, pensa, e poi si sono sposati e quindi immagina il trambusto, la novità, la vita che comincia e io la capisco. È solo che ora a me quei soldi servirebbero, e sì lo so che fa un po’ schifo detta così e mi vergogno veramente però, vedi, poi anche dopo che è successo quel che doveva succedere a me non è arrivato neanche un centesimo, capisci? neanche una collana o un orecchino, con tutto l’oro che aveva. Che lei amava l’oro, aveva sempre questi pendagli meravigliosi e riusciva a non sembrare mai pacchiana, una donna fine ed elegante, tua madre, è solo che era mia sorella, capisci? e non mi ha lasciato proprio nulla, per ricordarla, capisci? e quindi adesso, nel momento del bisogno io avrei bisogno di quei soldi e mi chiedevo cioè dunque se insomma voi poteste rendermi quei soldi, che ora che c’è l’euro saranno che so, trecento? che però a me sarebbero veramente utili».
Io per tutto il tempo cerco di mangiarmi le pellicine intorno alle unghie, o mi sgranocchio le nocche. Poi lei tace, e per fortuna in quel momento sento i passi di papà che scende le scale, lo vedo comparire su nel pianerottolo. È in mutande, con una di quelle canottiere bianche Oviesse che si macchiano subito sotto le ascelle col deodorante, e inizia a scendere e cerca di mettere a fuoco in tutta quella luce chi è la signora seduta al tavolo della sua cucina. Avreste dovuto vedere la sua faccia, quando sembra riconoscerla, e inizia a gridare cose, e allora capisco che questa signora si chiama Livia, e papà dice altre cose a proposito dell’azienda e che tutti sono spariti, hanno cambiato numero, residenza, neanche un fiore ai funerali, e dovevate vederlo, era rosso in faccia che mai lo avevo visto così. Quindi la zia se ne sta zitta fino a un certo punto, poi con voce tipo uccellino cerca di dire qualcosa a proposito di quelle settecentomila lire. È solo che papà grida troppo forte e non la ascolta, quindi si mette anche lei a gridare, e mi stupisce perché non credevo che potesse nascondere non so dove quella voce così grassa, e mentre grida sputa, e io devo allontanarmi impercettibilmente verso le scale su cui sono comparse mia sorella e la fidanzata di papà. Sono sempre più a disagio mentre papà e questa Livia discutono a proposito di cause e cose che sembrano vecchie di millenni ormai, e di qualcuno che non ha mai voluto che qualcun altro amasse un terzo qualcuno, e che il primo qualcuno ha sempre strisciato alle ginocchia di quel terzo e sussurrato cose cattive, ingiuste alle sue orecchie, e che era grazie al sudore del secondo qualcuno e di sua moglie se quel primo qualcuno e suo marito hanno sempre vissuto nella bambagia, e che forse ora se la meritano quella cosa. Che mai nessuno c’è stato per i figli dei due quando avevano bisogno di non sentirsi soli, di essere amati, e io vorrei solo non so tipo dir loro che sembra passato così tanto tempo da quando è successo quello di cui parlano che non sanno neanche più di cosa stanno parlando, forse. Che tanto non risolveranno niente, e vorrei alzarmi, aprire il congelatore, infilare una pizza di quelle surgelate nel forno. E penso che mi piacerebbe che qui ci fosse la mamma, che anche lei si prendesse una pizza dal frigo, la infilasse nel forno, e poi guardandosi intorno invitasse tutti a cena, quella sera, papà e mia sorella, la zia, e anche la fidanzata di papà, col suo sorriso che era in grado di illuminare l’intero salotto come un lampadario – poi però penso che non ci sono abbastanza pizze in surgelatore, che qualcuno prima o poi deve andare a fare la spesa, che non è ancora domenica, e intanto papà e la signora continuano a urlare, e forse sarebbe meglio che lasciassero perdere, perché quella cosa che sento dentro la sentiranno anche loro probabilmente, la devono sentire anche loro perché sembra aver avvolto tutto, ammorbato l’aria infestato le pareti corrotto il senso del tempo e delle cose, che prima o poi per forza devo cambiare, deve cambiare qualcosa per forza prima o poi, e sento mia sorella che ha iniziato a piangere e vedo la ragazza di papà, che le sta stretta vicino, e salgo le scale, passo oltre, mi infilo in camera e cerco da qualche parte i risparmi di tutti gli stipendi che ho messo via negli ultimi non so due cinque dieci cinquanta trecento anni? e quando li trovo li prendo e scendo e li lascio nelle mani di questa Livia di modo che se ne vada, che lasci perdere, che sparisca di nuovo da quel buco di nulla fuori casa da cui è venuta, che va bene non c’è problema non so saranno mille millecinquecento euro. Li prenda! ci faccia quello che vuole, l’importante è solo che sparisca.
Il momento giusto per chiedere indietro
di Simone Pietro Ruocco
Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 25 e ha le etichette Colla25, Simone Pietro Ruocco. Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.