La ragazza di velluto
di Giulia Caminito

Vito era un poeta, anzi Vito era un poeta seduto al caffè che da Galerie Vivienne si affacciava su rue des Petits-Champs, o meglio – per essere precisi – Vito era un poeta molto arrabbiato seduto al caffè che da Galerie Vivienne si affacciava su rue des Petits-Champs.
Vari motivi avevano fatto arrabbiare Vito, il primo – più contingente – il prezzo del caffè arrivato a ben cinque euro, il secondo – più esistenziale – non riusciva più a scrivere poesie.
Vito credeva di aver contratto una malattia. Non aveva trovato altre spiegazioni razionali per riuscire a capire come mai da un giorno all’altro si fosse svegliato incapace di versificare. La sua mancanza di inventiva, di ritmo, di parole, di idee era dilaniante, il silenzio della sua mente assoluto.
Quando la malattia si era presentata all’inizio, nel suo appartamento soleggiato al quartiere del Pigneto a Roma – scelto con cura per quel suo quid underground –, Vito non si era troppo allarmato, soffriva infatti a volte di alcune cadute di stile: le bollette arretrate del riscaldamento condominiale, il suo gatto in calore o il fiato sul collo del suo editore, potevano essere ragioni di disturbo tali da inebetirlo nelle sue capacità intellettive, altrimenti – a suo dire – assai brillanti. Ma poi, forte della propria materia grigia irreprensibile, riemergeva sempre dal tedio in cui era caduto, gli bastava qualche piccola spintarella: una mostra sull’allarmante bellezza estetica dei quarti di bue, uno spettacolo riadattato della Medea in versione gangster di Chicago, la presentazione di un libro su una donna e il proprio tucano: tutti materiali plausibili per la sua produzione poetica.
Ma quello che era apparso al principio come un banale raffreddore, nel corso delle settimane e poi dei mesi si era trasformato in una inguaribile malattia tropicale, nell’amputazione di un arto, in un danno cerebrale irreversibile.
Vito non aveva più scritto una poesia.
Sua sorella Mimì l’aveva convinto che tutto fosse dovuto allo stress accumulato in quegli anni, la produzione a catena di sillogi, la ricerca pietosa di recensioni sui giornali, i drink mal fatti bevuti alle feste del circondario editoriale, il rendiconto dei diritti d’autore che tardava sempre ad arrivare e infine il Filangeri, suo vecchio professore di linguistica, che incombeva come un santo nume sulla sua verve d’artista, pretendendo e salmodiando, ridicolizzando e vezzeggiando allo stesso tempo.
Galvanizzato dalle tesi della sorella, Vito si era infine deciso a comprare un biglietto di sola andata per Parigi, perché di certo lì lui e la poesia si sarebbero ritrovati.
Parigi e la poesia, la poesia e Parigi.
Si era così recato con solerzia in due o tre caffè parigini, possibilmente vicini alla Senna, s’era seduto ai tavoli fuori, affacciati verso la strada – nonostante in alcuni casi il vento gelido lo scarmigliasse senza perdono – e aveva iniziato a guardare le persone. Niente di più facile: prendere appunti sulle persone, le loro borse, i loro occhiali, i loro sguardi, le loro movenze, i saluti, ah i passanti a Parigi! Vito si sentiva rinato.
Ma le caffetterie e brasserie agli angoli delle piazze o lungo i boulevard non avevano sortito effetto, le sue pagine di appunti non avevano prodotto neanche una figura retorica di bassa lega, una sineddoche, un’allitterazione, che ne so, una rima baciata! Nulla.
Il problema alla radice doveva essere lo stress, come aveva detto Mimì, quindi Vito fece attenzione a mangiare sano – possibilmente poca carne che rende notoriamente nervosi – e dormire svariate ore, anche il pomeriggio, facendo lunghi sonnellini nella soffitta che aveva preso in affitto al boulevard Saint-Germain.
Tuttavia il cibo sano lo rendeva fiacco, aveva sempre sonno, si trascinava da una stazione della metro all’altra cercando con angoscia crescente di intravedere un clochard, un bambino con una piccola fisarmonica, una donna a piedi nudi, qualcuno che urlasse dolore in quella città così da smuovere le corde profonde del suo nobile animo. Nulla, le disgrazie altrui non gli portavano giovamento.
Bene, si disse Vito, se le persone comuni non possono ispirarmi ci penseranno gli artisti. E detto questo comprò una cartina di Parigi e si segnò alcuni musei sicuramente poetici, i più piccoli e bistrattati dalle folle, come case di nobili decaduti o biblioteche nelle abbazie, poi quelli grandi: il Museo d’Orsay per vedere le ballerine di Degas, il Louvre dove era in corso una personale su Vermeer, il Museo Maillol con i suoi Braque e i suoi Picasso, e poi il Museo Rodin con la statua scura del Pensatore che svettava tra le siepi.
Nulla, niente di niente. Odiò di odio abissale le lunghe file d’attesa, i visi grigi dei custodi – gli capitò persino in una casa museo di incrociare una donna panciuta convinta che il quadro lì in mostra di Botticelli fosse un falso –, le persone con le loro audioguide a volumi da stadio, le gite dei liceali francesi gaudenti che si prendevano a spinte e per poco non faceva cadere a terra un omino di Giacometti.
No, non era possibile trovare lì la poesia.
Il pellegrinaggio a Montmartre tra le bancarelle di finti artisti, le tre ore passate immobile sotto alla Tour Eiffel, il basco nero di feltro che si era comprato, la sciarpa arancione di lana con cui si imbacuccava ogni mattina, i cinque giri che aveva fatto su una stupida giostra di cavalli – guardato malissimo da tutti i bambini presenti –, l’essersi dato all’alcol prediligendo l’assenzio, l’acquisto di droghe leggere e assai puzzolenti, il consumo smodato di sigarette con cui cercava a ogni modo di riempire il posacenere, che se stracolmo avrebbe secondo lui completato la composizione perfetta vicino alla finestra – lui, un quaderno, un bicchiere di vino, un posacenere pieno.
Non ci fu verso.
Come ulteriore gesto disperato un giorno prese la metro in direzione Montparnasse e andò alla ricerca della tomba di Baudelaire. Lui di sicuro avrebbe fatto qualcosa per il povero Vito.
Quella fu la giornata peggiore di tutte. La tomba del vecchio Charles – nonostante lo avesse cercato sulla piantina all’ingresso e riconosciuto nel pallino blu numero 14 – sembrava irrintracciabile.
Provò a chiedere informazioni a due ragazzini del liceo, troppo intenti a parlare di chissà che intensamente per rispondergli. Non c’erano molte altre persone, nessuna fila per fare una fotografia col morto, nessuna carovana di poeti come lui a rendergli grazia, nessun carretto di fiori freschi. Quando lo trovò – dopo la bellezza di due ore lungo il viale laterale del cimitero – rimase a dir poco perplesso. Un pezzo di pietra anonima su cui troneggiavano altri nomi – a lui sconosciuti – oltre a quello del poeta, accoglieva due mazzi di fiori secchi, un paio di sigarette finite, una fotografia in bianco e nero, qualche candelina spenta e numerosi biglietti della metropolitana.
Questa era la fine dei poeti: la gente ti lasciava i biglietti della metropolitana usati sulla tomba.
L’orrore pervase il nostro Vito, che in quella comune lastra non rintracciò nulla della propria vocazione al poetare e che pur avendola occhieggiata con cura per una buona mezz’ora – fino al momento in cui aveva iniziato a diluviare – non l’aveva fatto vibrare come una corda d’arpa. Il suo animo era muto e il suo futuro più nero che mai.
Con questo umore assai negativo Vito, dopo aver passato qualche giorno chiuso nella sua soffitta a lanciare languide occhiate al lucernario da cui sperava di vedere la luna – cosa difficile a causa del meteo avverso di quei giorni – era approdato alla Galerie Vivienne, uno dei passage più ricchi di Parigi.
Si trovava lì a onor del vero non per la Galerie, ma per la biblioteca nazionale che era lì di fronte e dove Vito, come gesto finale prima di lasciare Parigi, voleva cercare le proprie passate e gloriose poesie tradotte in francese, per salutare la vita di una volta e andare incontro al destino becero e abietto che lo attendeva al rientro in Italia.
Ma la biblioteca era chiusa.
Vito allora aveva gironzolato per la galleria che aveva sontuosi fregi greco romani sulle pareti, mosaici color salmone e giallo ocra a terra e i numeri dei negozi deliziosamente intagliati nel legno. Al suo interno facevano sfoggio atelier di artisti, negozi di abiti d’alta moda, un orologiaio che vendeva orologi con quadranti in madreperla, souvenir di design – tazze con sopra disegnate a mano delle eleganti Tour Eiffel o cuscini ricamati con le opere di Pizarro –, una libreria antica che all’angolo del passage vendeva libri usati e mostrava ai passanti alcuni cataloghi di Nadar.
Vito si fermò scoraggiato davanti alla vetrina di un antiquario che esponeva una mano di gesso appoggiata su uno sgabello coperto di velluto.
Si sentiva solo e abbandonato, l’unico reietto in un mondo di artisti. Persino una mano di gesso aveva più nobiltà di lui.
Al caffè di rue des Petits-Champs la tristezza di Vito aveva ormai lasciato il posto alla collera più cieca. Per questo mondo infame che ti faceva credere di poter possedere la poesia per poi farti tornare nel fango primordiale della vita qualunque.
Vito continuava a ripetere come un mantra: «Mondo infame, mondo infame, mondo infame» mentre con disgusto si rendeva conto di quanto avrebbe dovuto pagare l’ennesimo inutile caffè esoso di Parigi.
Al diavolo Sartre, Balzac, Hugo, Stein, De Beauvoir, Renoir, Monet, Chopin, i surrealisti, gli impressionisti, i paesaggisti, i classicisti, i romantici, gli esistenzialisti, la Belle Epoque, il Re Sole, la Rivoluzione, l’umanità.
«Maledetti, maledetti» ripeteva Vito alla sua tazzina di caffè ormai vuota. «Ci fate venire fin qui, ci promettete la poesia e poi?» ma la tazzina aveva l’aria di non voler rispondere, quindi Vito la rovesciò in un moto di stizza e chiese il conto al cameriere con il grembiule più lussuoso mai concepito da un essere umano.
«Neanche i grembiuli qui sono solo semplici e dannatissimi grembiuli!» disse Vito in italiano, sapendo che difficilmente sarebbe stato compreso, e infatti la signora che sedeva alla sua sinistra – e che da un po’ osservava le sue bizzarre pose – non capì e forse per questo, a causa dell’incomprensione – movente verosimile di molti comportamenti – si sentì in dovere di rispondere.
«Io sono una pessima madre» disse a Vito con occhi acquosi.
«Come scusi, Madame?» Vito si guardò intorno per cercare di capire se la donna ce l’avesse proprio con lui.
«Ho detto che sono una pessima madre, ed è giusto che lo dica ad alta voce» ripeté lei, si alzò dal proprio tavolino, anche se non invitata, e lo raggiunse sedendoglisi di fronte. «Mi sono appena comprata un vestito da sposa da cinquemila euro anche se non mi devo sposare, capisce? Era così bello in vetrina, un completo gonna pantalone di velluto bianco, pieno di pizzi e io mi sono detta che sì, avrei dovuto averlo, perché non è giusto affatto che sia una prerogativa solo di chi si deve sposare.»
In una normale circostanza, se la donna in questione avesse attaccato bottone in tale maniera con qualunque uomo presente alla Galerie Vivienne, con ogni probabilità entro pochi minuti sarebbe stata raggiunta dal servizio di sicurezza. Ma Vito era un poeta, un poeta arrabbiato, e venne attratto come una calamita sul frigorifero dalle sconclusionate parole della signora.
«Un vestito da sposa coi pantaloni?» fu l’unica domanda che gli venne in mente di porre.
«Sì, è lì dentro in quella scatola. Sa perché l’ho comprato? Perché l’altra sera un ragazzino che neanche avrà avuto diciassette anni si è presentato a casa mia con mio figlio per mano, dicendo che il bambino era scappato perché io per il suo compleanno non gli avevo voluto comprare una stupida bambola e lui lo aveva riportato e aveva comprato la bambola al posto mio. Io ho pensato che neanche mi ero accorta che fosse scappato perché ero in terrazza a lavorare e che se mio figlio può scappare e comprarsi una bambola, allora io come minimo posso uscire all’ora di pranzo e venire qui ad acquistare un vestito da sposa. Non le sembra giusto?» concluse la signora Lucille boccheggiando per la fatica dell’essere arrivata alla fine della propria dissertazione.
«Perché non voleva comprargli una bambola?»
«Perché è un maschio! Non dovrebbe giocare con le bambole!»
«Ma lei ha appena comprato un vestito da sposa coi pantaloni…»
«Esatto, a ognuno la propria vendetta.»
Vito la osservò attentamente, gli pareva una bella signora, ancora giovane, poche rughe, niente doppio mento, portamento altezzoso, capello curato. Ci pensò sopra.
«Quindi lei è una pessima madre, ma vorrebbe essere una ragazza di velluto?»
«In che senso di velluto?»
«Il suo vestito, no? Una ragazza di velluto…»
«Certo, una ragazza di velluto» ripeté Lucille a occhi sognanti, come se quella definizione rimettesse a posto una libreria appena crollata, con tutti gli autori in ordine alfabetico e le edizioni più pregiate davanti, le coste ben allineate, spolverate da poco.
Vito afferrò uno dei tovaglioli di carta del bar, tirò fuori la sua penna nera – inutile dirvi che fosse a inchiostro – e scrisse qualcosa, poi lo consegnò ripiegato alla donna, alzandosi in piedi.
«È per lei, Madame, la mia ultima poesia.»
Lucille aprì il foglietto con mani tremanti, al modo di chi sta scartando un cioccolatino di Patrick Roger, e lesse ad alta voce.

Il senso ci bastona
Come polvere sfortunata
Siamo corpi molli
Senza una ragazza di velluto.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 25 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.