Survivor
di Raffaele Cataldo

«Allora, come sta il mio fringuello?» Quella voce così calda e familiare emergeva a fatica, graffiata, dalle cavità del telefono pubblico. «Ti stai divertendo?»
Non avevo il coraggio di dirle che stavo odiando ogni minuto.
Non che non le avessi già manifestato qualche perplessità, prima di partire. La parola «colonia» mi sembrava si addicesse di più a un gruppo di animali che a degli esseri umani. Mia madre però sembrava tenerci davvero tanto: non faceva che parlare con rimpianto dei bei giorni andati della colonia estiva – quelli trascorsi dai suoi fratelli, visto che lei, l’unica figlia femmina, era dovuta rimanere ogni volta a casa. Alla fine non me l’ero sentita di dirle di no. A malincuore, avevo ceduto.
La colonia quell’anno si era insediata in un villaggio turistico a tre ore di macchina da casa, ma poteva anche essere dall’altra parte del mondo. D’altronde, sin dal primo momento, quando il «Tutor» aveva guidato me e i miei compagni verso i nostri «bungalow», fu chiaro che da quelle parti si parlava tutta un’altra lingua.
Per tre settimane ci si aspettava che convivessi con altri quattro ragazzi. Di alcuni non ricordo nemmeno il vero nome, dato che inspiegabilmente ci si rivolgeva l’un l’altro con il paese di provenienza; questo quando non riuscivano a trovare un insulto abbastanza colorito.
«I compagni come sono? Simpatici? Vi state divertendo, vero?» Mia madre doveva faticare non poco per cavarmi di bocca qualche balbettio.
«Mm… fanno delle cose…» cominciavo. Speravo che nel mio silenzio lei intuisse l’inimmaginabile.
«Ti vergogni di dirmelo?» Dalla voce si capiva che sorrideva. «Che c’è, fanno a gara a chi fa pipì più lontano?»
Se fosse stato solo quello, magari avrei anche potuto passarci sopra. La verità era che cose ben più inconfessabili avvenivano sotto il tetto di paglia del nostro bungalow.
Non so chi avesse avuto per primo l’idea. Era successo la prima sera, quasi di comune accordo, per un istinto di cui io solo sembravo sprovvisto. Il crepuscolo era calato sul villaggio, le palme avevano iniziato a risuonare degli stridii di uccelli sconosciuti, e i miei compagni si erano riuniti in cerchio al centro della stanza per dare il via a una gara a cui mi ero rifiutato categoricamente di partecipare ma da cui non ero riuscito a staccare gli occhi orripilati.
«Vabbè, hai vinto» si era arreso subito Bitonto, dodici anni e un’ombra grigia sopra il labbro. Guardava gonfio d’invidia il suo vicino.
«Non hai visto niente» aveva minimizzato Giovinazzo, dall’alto dei suoi quattordici anni. Ma non riusciva a trattenere un ghigno luccicante di metallo. «C’è mio cugino di sedici anni che ce l’ha tanto così».
«Mo vi faccio vedere io» aveva detto Molfetta, di anni tredici. «Basta scuoterlo un po’…»
La serata era andata avanti così per un bel pezzo. Alle misurazioni – approssimative, dato che nessuno aveva pensato di portarsi un righello – era seguito un lungo confronto sugli sforzi condotti da ognuno nel segreto delle loro camerette per distillare una certa sostanza a me ancora sconosciuta. Quando mi permisi di chiedere chiarimenti, i miei più esperti compagni me la descrissero come una sostanza «bianca e puzzolente». Il fatto che fosse «puzzolente» venne ribadito con una certa insistenza, quasi si trattasse di una qualità particolarmente rara e apprezzabile.
«Ed Elia, come sta?» chiedeva mia madre, a ogni telefonata. «È uno spasso quel ragazzino, lo dico sempre.»
Elia era l’unico dei quattro coinquilini che conoscessi già, visto che eravamo compagni di classe. Ciononostante, già poco dopo il nostro arrivo avevo scoperto un lato di lui che non aveva mai mostrato tra i banchi di scuola: non soltanto sembrava divertirsi moltissimo durante le irripetibili conferenze che si tenevano nel nostro bungalow, ma vi partecipava con entusiasmo e con una competenza a dir poco stupefacente. Si era subito conquistato l’approvazione del gruppo quando aveva rinominato la sostanza bianca come «latte paterno»: una denominazione che tutti avevano trovato deliziosamente disgustosa.

La tribù del bungalow aveva l’abitudine di intrattenersi ogni sera fino a tardi davanti alla tv, in attesa di certi film che mandavano dopo la mezzanotte su Telecapri. Le luci allora si spegnevano e tutti si ammucchiavano sul letto matrimoniale dove dormivano Giovinazzo e Molfetta per godersi lo spettacolo e commentare insieme le scene di maggiore interesse. Le stesse scene venivano poi recitate, parodiate e mimate di continuo nei giorni successivi, suscitando sempre ululati d’ilarità. Io avrei di gran lunga preferito rintanarmi in bagno, magari mettermi a sfogliare la mia collezione di schede telefoniche del WWF. Ma era impossibile chiudersi in una stanza senza che qualcuno facesse insinuazioni infamanti.
«Non ho capito una cosa…» esordii una di quelle sere, mentre se ne stavano tutti ammassati sul lettone come un grappolo di lemuri. Quelli non smisero di fissare la tv, continuarono a darsi gomitate e a emettere squittii d’eccitazione.
«Non ho capito una cosa» ripetei, a voce appena più alta. «Ma la donna… La donna si fa male?»
Per qualche istante si sentirono solo i versi della tv. Poi, uno dopo l’altro, Elia, Giovinazzo, Molfetta e Bitonto si voltarono a guardarmi.
«È che urlano sempre…» dissi.
La luce azzurra dello schermo faceva luccicare i loro occhi vacui. Sembrava che non avessero capito la domanda.
«No, gli piace anche a loro» borbottò Elia, alla fine. Sembrava un po’ accigliato. Distolse lo sguardo da me e anche gli altri tornarono subito a guardare la tv, facendo come se non avessi mai parlato.
Da quella sera evitai di condividere le mie perplessità. Mi sforzai di assorbire quante più informazioni dai loro discorsi, che erano pieni di parole esplosive e a me sconosciute ma che ben presto seppi ricondurre a una gamma di significati tutto sommato ristretta. Su certi argomenti, i sinonimi sembravano non bastare mai.
Prima della colonia la mia nozione di sesso si limitava alla distinzione tra vivipari, ovipari o ovovivipari. L’aspetto pratico della riproduzione, ora, a dieci anni dalla mia nascita, all’improvviso mi si presentava come un’incombenza angosciante, per la quale non potevo che essere del tutto impreparato. A colazione, nel self-service del villaggio, mentre mi riempivo il vassoio (evitando con cura lo yogurt bianco e qualunque cosa vi somigliasse), mi mettevo a osservare le famiglie di villeggianti. Studiavo soprattutto i neonati. Mi sembrava inconcepibile che loro, che io… potessimo essere il prodotto fermentato di una sostanza «puzzolente». In quegli occhioni sbarrati riconoscevo il mio stesso sbigottimento.

Presto nel bungalow cominciò a circolare un’aria di sospetto nei miei confronti. Mi sforzavo in ogni modo di compiacere i miei compagni, anche a costo di ripetere a pappagallo tutto ciò che dicevano (più che altro i loro discorsi si limitavano a quello che avrebbero fatto loro alle attrici dei film di Telecapri se solo ne avessero avuto l’occasione). Più cercavo di imitare il loro linguaggio, però, più sembravo convincerli di essere un impostore.
Col trascorrere lento dei primi giorni di villeggiatura, la diffidenza nei loro sguardi cedette ben presto il posto a qualcos’altro: qualcosa che somigliava alla pietà, unita a una punta di disagio, forse persino ribrezzo. Questo soprattutto quando cominciai a scoppiare in lacrime senza alcun preavviso, nei momenti più impensabili.
Finché eravamo impegnati nei giochi e nelle attività diurne riuscivo a tenere a bada le mie crisi. Ma all’ora di cena il pensiero di casa tornava a riaffacciarsi, e dovevo correre a rintanarmi nella nicchia di plastica rossa dove c’era il telefono pubblico.
«Fringuello, è normale avere nostalgia, all’inizio…» mi confortavano a turno le mie sorelle. «Quando ti sarai ambientato inizierai a divertiti, vedrai.»
«Mi prometti che ti sforzerai di divertirti?» diceva ogni volta mia madre prima di riagganciare. Ogni volta promettevo, ma sempre con minor convinzione.
In quei giorni il mio linguaggio cambiò ancora una volta. Senza rendermene conto, iniziai a ripetere cose come «Qui dentro c’è aria di chiuso!» o «Ma che vi costa tirare lo scarico?» e tutta una serie di formule che a casa mi sentivo ripetere fino alla nausea ma che ora custodivo come gli ultimi frammenti di un’antica, più evoluta civiltà.

Ormai lo facevo ogni giorno: chiuso in bagno di mattina, sotto le coperte di notte, davanti al calendario che mi ero appeso sopra al comodino. Quando la voglia di piangere mi assaliva non c’era nulla che potessi fare per trattenerla. Una volta, a metà di una partita di calcetto, finsi un mal di pancia solo per poter avere il bungalow tutto per me e piangere, piangere senza ritegno. Il nostro Tutor venne a controllare che stessi bene e mi trovò a inzuppare di lacrime il letto matrimoniale. Io non mi accorsi subito di lui: ero troppo occupato a singhiozzare. Nella disperazione mi ero dimenticato di chiudere la finestra e il Tutor ci aveva infilato la testa. Mi fece pensare alla giraffa dello Zoo Safari che aveva ficcato il muso nella nostra macchina durante una gita di famiglia. Quel ricordo mi fece sentire ancora peggio. Non sentii una parola di quello che balbettò. Il Tutor chiaramente non vedeva l’ora di andarsene, mi lasciò ai miei sfoghi solitari e scomparve dietro le acacie.
Quando, quella sera, il cielo iniziò a scurirsi e i miei compagni fecero ritorno al bungalow, Elia venne a sedersi sul mio letto. Mi fece ascoltare la musica dal suo walkman. Si era portato un paio di cuffie in più.
«Bella questa» mormorai, dopo un po’ d’ascolto, la voce ancora roca.
«È fichissima, vero?» disse Elia. «Sono le Destiny’s Child, Survivor. Sai che vuol dire, Survivor
«Che vuol dire?»
«“Sopravvivere”. Me l’ha detto mia sorella. E Destiny’s Child significa “Figlie del Destino”.»
«“Figlie del destino…”» gli feci eco, colpito.
«C’è quella gran bonazza di Beyoncé che c’ha un cu…». Elia s’interruppe un attimo, per darmi un’occhiata veloce. «È molto bella, lei.»
«Come hai detto che si chiama?»
«Beyoncé» ripeté Elia, indicandomela sulla copertina della cassetta. «Mia sorella dice che è un nome da shampoo.»
Beyoncé. Nella mia bocca suonava piacevolmente dolciastro. C’era un che di elastico, tra quelle sillabe, come una carica d’energia, qualcosa capace di catapultarmi lontano con un balzo, oltre i cancelli del villaggio…
Un paio di volte riuscimmo a beccare il videoclip su MTV: Beyoncé e le sue amiche finivano su un’isola sperduta nell’Oceano Pacifico. All’inizio arrancavano sulla sabbia, i vestiti laceri, ma pian piano si rimettevano in piedi e cominciavano ad ambientarsi. Le si vedeva mentre giravano per la giungla vestite con pelli d’animale. Si fabbricavano delle lance per pescare e a un certo punto scalavano persino una parete di roccia, a mani nude, e si mettevano a ballare in un tempio abbandonato che si trovava là in cima.
Da allora Survivor divenne un inno. Non c’era giorno che Elia e io non la cantassimo. Ci sfidavamo a cantarla persino sott’acqua in piscina. Quando pensavamo ci fosse troppo silenzio, uno dei due attaccava con Survivor e in un attimo ci trovavamo a saltare sui letti e a cantare finché qualcuno nel bungalow non ci diceva di piantarla. Ma noi gridavamo più forte: Amma SURVIVOR! Amma SURVIVOR! Amma Big BABOL! Amma SURVIVOR!

Poi, a sorpresa, la tribù del bungalow perse un membro.
Molfetta aveva deciso di lasciarci. Per giorni non l’aveva dato a vedere, ma si scoprì che aveva sofferto anche lui la nostalgia di casa, finché non ce l’aveva fatta più: i suoi erano venuti a riprenderselo.
Fu uno shock. Come se una via di fuga, una minuscola breccia, si fosse aperta solo per poco, e io ero stato troppo distratto per accorgermene. E mi ero distratto perché avevo cominciato a divertirmi.
Tornai a versare lacrime e lacrime sul telefono pubblico. Ma chiamavo casa molto meno spesso di quanto avrei voluto, dato che ero costretto a chiedere soldi al Tutor per comprare le schede telefoniche. Attorno alla vita, sopra i pantaloncini militari, aveva un marsupio da cui gestiva le nostre finanze per conto dei genitori. Dover chiedere soldi a un estraneo era una di quelle cose che mi facevano venir voglia di piangere. Anche se sapevo che erano soldi miei. Del resto le cose più banali, in quel posto, mi facevano venir voglia di piangere. Ad esempio, il bucato: mi ossessionava il pensiero delle signore che lavoravano nella lavanderia della colonia, le donne senza volto che leggevano il mio nome-e-cognome scritto sull’etichetta delle mie mutandine sporche; e chissà quali commenti ci facevano sopra.
«Fringuello, se stai così male ci mettiamo in macchina e ti veniamo a prendere» diceva mia madre.
Mi convinsi a rimanere solo per Elia. Sentivo che se me ne fossi andato prima della fine della colonia non avrei più avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, una volta tornati a scuola.

Tra una lacrima e un ripensamento, quella prima, interminabile settimana riuscì a concludersi. Fu a quel punto che Elia e io ci trovammo un nuovo amico.
Lo incontrammo in piscina. Aveva scelto un ombrellone accanto al nostro. Elia gli aveva fatto i complimenti per un tuffo a bomba particolarmente spettacolare, e da lì era stato facile passare alle presentazioni. Sannicandro aveva tredici anni, un largo sorriso bianco ed era agile e abbronzato come una pantera. Anche lui faceva la collezione delle schede telefoniche del WWF. Mi regalò persino il cuculo, che aveva a doppione. Ci disse che lui la sostanza «bianca e puzzolente» riusciva a ottenerla con una certa regolarità e consistenza già dall’inizio dell’estate. La prima volta si era aiutato con la crema per le mani di sua madre e una vecchia foto di Carmen Russo. Elia era visibilmente ammirato.
Passammo tutta la domenica insieme, Elia, Sannicandro e io, a fare tuffi e capriole sott’acqua. Il giorno dopo, a colazione, lo cercammo con lo sguardo e il suo sorriso ci rispose dal fondo del self-service. Lui ci fece un cenno con la mano e ci invitò a raggiungerlo al suo tavolo. Mangiammo insieme anche a pranzo e a cena, e continuammo a farlo nei giorni successivi. In generale cercavamo di approfittare di ogni momento libero per stare in sua compagnia.
Uno di quei giorni ci sembrò un po’ abbattuto. Ci disse in confidenza che non si trovava tanto bene con i suoi compagni di bungalow. Appena lo sentimmo Elia e io alzammo entrambi lo sguardo dalla nostra coppetta di gelato e ci guardammo, riconoscendo l’uno negli occhi dell’altro la stessa brillante idea.
C’era ancora il letto di Molfetta inutilizzato, e non c’era motivo per cui i Tutor dovessero fare storie: il trasferimento di Sannicandro nel nostro bungalow avvenne quel pomeriggio stesso.
Fui io ad accoglierlo. Ricordo ancora oggi l’entusiasmo con cui corsi alla porta, non appena sentii le ruote del suo trolley grattare sull’asfalto del viale.
«Benvenuto!» esclamai, aprendo la porta.
Sannicandro accennò una risata, scoprendo i denti bianchissimi.
«Vuoi una mano?» gli dissi, tenendogli la porta aperta.
Lui lasciò la valigia sull’uscio ed entrando mi diede una spallata. «E lèvati, ricchione».

Fu come se tutta l’aria mi venisse aspirata dai polmoni. Subito dopo sentii il risucchio dello sciacquone e la porta del bagno che si apriva, con Elia che ne usciva. Nell’aria si sentiva ancora lo spettro del deodorante di Molfetta.
«Uelà, amico!» esclamò Elia. Andò incontro a Sannicandro e fecero la stretta di mano speciale che lui ci aveva insegnato in piscina. «Vieni, ti faccio vedere il tuo letto…»
Sannicandro non si mosse. «Veramente mi piace questo qui» disse, indicando il mio, che era il più vicino alla porta.
«Quello è suo» disse Elia, lanciandomi un’occhiata.
«Sì, ma lui me lo cede» disse Sannicandro.
Elia mi interrogò con lo sguardo. Io non riuscii a dire niente, ed Elia sembrò sollevato.
Sannicandro si mise subito a disfare le valigie. Alla prima occasione, quando entrò in bagno, tirai Elia per il polso e lo portai fuori sul portico. Col cuore che batteva all’impazzata gli ripetei quello che mi aveva detto.
Elia per qualche istante non disse una parola.
«Nah, non è possibile.»
Neanch’io riuscivo ancora a crederci.
«Avrai capito male» disse Elia. Aveva le sopracciglia aggrottate. Sembrava osservare qualcosa tra le acacie, ma ad ogni occasione si voltava verso la porta del bungalow. «Non mi sembra proprio il tipo…»
«Giuro che mi ha detto così» dissi, con la voce che già mi tremava.
Non staccavo gli occhi da Elia, da quel viso che ormai conoscevo così bene: una faccia a forma di cuore, con in cima una fila di capelli a spina.
Lui sospirò. «Avrai sentito male» ripeté. Sembrava esausto, come se per tutti quei giorni mi avesse caricato sulle spalle. Sospirò e finalmente mi guardò negli occhi, ma solo per un istante. «Adesso non cominciare di nuovo a piangere.» Poi rientrò, senza dire altro.

Il ritmo ossessivo delle cicale mi premeva sulle orecchie. Iniziai a correre. Non mi fermai un attimo, finché non vidi il telefono pubblico, simile a un grande orecchio rosso pronto all’ascolto, oltre la tenda verde dei salici. Afferrai la cornetta, la mano mi tremava tanto che non riuscivo a infilare la scheda. Il koala stampato sopra si aggrappava forte all’eucalipto per non cadere.
Mentre il segnale della linea continuava a tubare io pensavo che dovevo andarmene al più presto da lì. Dovevano venirmi a prendere subito, mettersi in macchina in quel preciso momento. In quel bungalow non avrei dormito una notte di più.
Ma in casa non c’era nessuno. Provai e riprovai, senza alcun risultato.
Dovetti tornare indietro. Dalla strada sentivo già le voci di Sannicandro ed Elia. Ridevano, insieme a Bitonto e Giovinazzo. Sannicandro si stava vantando ancora con la storia della crema per le mani e di Carmen Russo.
Mi fermai davanti al portico. Non potevo più entrare.
Mi guardai intorno, in cerca di un posto dove andare, finché quasi non cominciò a girarmi la testa. Attraversai altri tre viali di villette tutte uguali. Alla fine mi infilai nello stretto spazio vuoto che separava due bungalow indistinguibili. Mi sedetti lì per terra e mi premetti il viso contro le ginocchia.
Pregai con tutto me stesso che un elicottero venisse subito a portarmi via, come alla fine del videoclip di Survivor, o perché un meteorite attraversasse il cielo e finisse dritto su Sannicandro, riducendolo in poltiglia. Pregai perché ci fosse un repentino salto evolutivo e la gente potesse riprodursi senza il sesso, semplicemente sdoppiandosi, come i batteri o le alghe azzurre. Mi sarei considerato fortunato anche se un meteorite fosse caduto dal cielo per ridurre me in poltiglia.
Non ricordo quanto tempo rimasi lì, a strappare l’erbetta dalla terra e a bagnarmi le ginocchia. Ricordo che a un certo punto mi passò davanti un gatto rosso. Mi osservò per un po’ con i suoi occhi dorati, io allungai una mano, ma fuggì non appena udimmo delle voci. Venivano da dietro il cespuglio che copriva la vista del viale.
«Tagliamo da qui» aveva detto qualcuno. «Facciamo prima.»
Per un folle istante pensai che le mie preghiere fossero state ascoltate. Mi immaginai le Destiny’s Child, o almeno mia madre e le mie sorelle. Invece dal fogliame emersero due signore, che si facevano strada nella vegetazione sollevando i lembi dei loro scamiciati a fiori. La più giovane aveva un asciugamano celeste poggiato come un velo sui capelli bagnati.
«E tu che ci fai qui?» chiese la più anziana.
Lacrime e muco risposero al posto mio.
«È un bambino della colonia» disse l’altra, riconoscendo il mio berretto arancione. Mi fecero qualche domanda, ma capirono subito che prima avevo bisogno di sfogarmi un po’. Mi presero per mano e mi aiutarono ad alzarmi.
Così mi portarono al loro bungalow. Durante il tragitto parlarono solo loro. Scoprii che erano milanesi, una madre e sua figlia non sposata. Il loro bungalow era diverso dal nostro. Sembrava fatto di materiale più solido, era più grande, e aveva anche un cortiletto con un eucalipto altissimo. Mi fecero sedere lì all’ombra, a un tavolo di plastica con una tovaglia a fiori, e mi offrirono un bicchiere di tè freddo (per fortuna, era alla pesca).
Non ero pronto per raccontare quello che era successo. Non gli parlai né del tradimento di Elia né di Sannicandro. Loro non insistettero, comunque. Mi chiesero della scuola, della famiglia, di com’era vivere con quattro donne, e io cominciai timidamente a parlare delle mie sorelle: c’era Letizia, detta Lizzy, che suonava il pianoforte ed era bravissima in tutte le materie; Giò, che scriveva poesie e che una volta aveva anche fatto una recita a teatro; e poi Mary, che studiava danza classica e che fino a qualche anno prima mi portava sempre con sé a lezione. Alla scuola di danza avevo una sediolina riservata; le sue compagne mi si affollavano intorno facendo frusciare i tutù, che sembravano coperti di zucchero.
«E a te cosa piace?» mi chiesero le due signore, mentre bevevo un secondo bicchiere di tè. «Sai già cosa vuoi fare da grande?»
Anche se conoscevo già la risposta, ne approfittai per pensarci ancora un po’. «Lo zoologo, credo.»
«Ma senti-senti!»
«Mi piace disegnare gli animali.»
Stavo giusto iniziando ad approfondire l’argomento quando la testa pelata del Tutor apparve sopra la siepe. Ci guardò distrattamente, stava per andare via, poi però mi riconobbe, e trasse un lungo sospiro.
Le signore lo invitarono ad entrare. Lui si scusò.
«Ma si figuri, è un bambino così a modo.»
«Sì, ma non può sparire così.»
Le due donne mi difesero, dicendogli che era stata una loro idea portarmi con loro, che mi avevano visto piangere e non ce l’avevano fatta a lasciarmi solo. «D’altronde, poverino, a quest’età non è mica facile stare lontano dalla mamma.»
«Lo so, signora. Anche alla mia età non è facile» disse il Tutor, e gli spuntò un sorriso un po’ triste.
«Da quanto tempo è qui?» chiese la signora più anziana.
«Due settimane, quasi» rispose il Tutor.
«No, non il bambino. Intendevo lei…»
«Ah, io? Dall’inizio della stagione. Devo rimanere fino alla fine di agosto.»
Mi misi a osservare più attentamente il Tutor. Doveva avere al massimo vent’anni, ma fino ad allora mi era sembrato praticamente un vecchio. Sulla testa l’ombra dei capelli rasati sembrava quasi verde. Il grosso pomo d’Adamo faceva su e giù mentre parlava. «Poi ho anche un fratellino della sua età…» stava dicendo intanto.
«Scommetto che sente la mancanza del fratellone» disse la signora più anziana.
«Mm… non ci giurerei. Ha tutta la stanza per lui, ora» disse il Tutor, e rifece lo stesso sorriso di prima. Mi posò una mano sulla spalla. «Adesso dobbiamo proprio andare. Scusate ancora per il disturbo.»
Ci furono saluti e ringraziamenti, poi il Tutor e io – a malincuore – lasciammo il cortiletto e ci incamminammo. Mi aspettavo una ramanzina, invece non mi disse niente. Mi strinse solo la mano. Forse temeva che scappassi di nuovo. Comunque non tornammo subito al bungalow: prima mi portò al bar della piscina e mi fece scegliere un gelato. Al momento di pagare non aprì il marsupio, ma tirò fuori dalla tasca il suo portafogli. Mentre mangiavo in silenzio, seduto allo sgabello, lui rimase in piedi, i gomiti appoggiati al bancone, a guardare i tuffi e gli inseguimenti degli altri bambini a bordo vasca.
«Tutto bene?» mi chiese solo. Feci cenno di sì con la testa, mentre leccavo quel che rimaneva del mio Croccante.
Ci eravamo appena rimessi in cammino, quando in fondo al viale vedemmo qualcuno correre verso di noi. Il Tutor sollevò le nostre mani unite e gridò: «L’ho trovato!».
Elia si fermò a qualche metro di distanza e si poggiò le mani sulle ginocchia. Aveva il fiatone. «Ma dove cazzo…eri finito…eh?»
«Le parolacce…»
«Mi sono… girato tutto il… villaggio!» continuò Elia.
«Andate a prepararvi per la cena» disse il Tutor. «E mi raccomando…» Mi riservò uno sguardo severo e, subito dopo, un occhiolino.
Prese la direzione opposta, e noi proseguimmo da soli. Per un bel tratto ascoltammo in silenzio il grattare delle cicale.
«Sai…» disse poi Elia, cupo. «Mentre non c’eri ha detto…» Lasciò la frase in sospeso e diede un calcio a un sassolino. «Insomma, non me lo facevo così…»
Io non risposi e guardai dritto davanti a me.
«Mi sa che non è stata una grande idea…» continuò. «Farlo venire a stare da noi.»
Ci mettemmo a guardare l’asfalto scorrere sotto i nostri piedi.
«Ci siamo cascati tutti e due» dissi alla fine.
«Già…»
«Come degli…» Mi interruppi un attimo, per dare un’occhiata veloce a Elia. «Come due teste di ciola» dissi, con un sorriso incerto.
Elia si fermò di botto. Si voltò a guardarmi e scoppiò in una grande risata delle sue. Finivano sempre con un guaito da cane-lupo.
«Gli ho detto che deve dormire nel letto di Molfetta, comunque» disse poi, stringendo gli occhi davanti al rosso abbagliante del sole. «Altrimenti se ne può tornare a casa sua…»
Gli sorrisi e anche Elia mi sorrise, abbassandosi la visiera sugli occhi. Eravamo arrivati al nostro bungalow.

Quella sera, prima di cena, ritornai al telefono pubblico. Rispose mia madre: «Fringuello, ho una bella notizia, sai? Domenica veniamo a trovarti, sei contento?»
Con quella prospettiva fu molto più facile affrontare i giorni che seguirono. Ce ne vollero pochi, comunque, perché Sannicandro si rivelasse anche al resto della tribù per quello che era veramente. Lui ed Elia arrivarono quasi alle mani. Successe mentre ero in piscina con la mia famiglia. Visto che non aveva più nessuno dalla sua parte, Sannicandro andò dal Tutor e chiese di essere trasferito in un altro bungalow, ma non c’erano più letti vacanti. I suoi ex-compagni non lo volevano più, e non a torto, visto le storie che venimmo a sapere.
Così i suoi genitori vennero a prenderlo. Lo portarono via dalla colonia che mancavano soltanto tre giorni alla fine.
Quando sua madre entrò tutta imbronciata nel bungalow per aiutare il figlio – altrettanto imbronciato – a fare le valigie, Elia le si avvicinò con un’aria furbetta e le fece i complimenti per le sue belle mani. «Sembrano davvero morbide, signora. Che crema usa?»

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