Eravamo in ritardo, due minuti, forse tre, e nel tunnel semibuio che conduce al campo di calcetto avevamo affrettato il passo, con le nostre borse a tracolla, verso gli spogliatoi, ridacchiando per la solita battuta che uno di noi aveva fatto sulla moglie obesa del proprietario del centro sportivo.
Lui, l’Intruso, era seduto sulla panca accanto allo sgabuzzino delle caldaie. La sua figura estranea ci è balzata subito agli occhi, nella divisa bianca perfetta, calzerotti fino al ginocchio, maglia cerata a maniche corte, scarpini lucidi appena tirati fuori dalla scatola. Aveva le gambe accavallate, il piede destro sul ginocchio sinistro, e lo agitava, con quella vibrazione di fastidio tra la noia e il nervosismo di chi aspetta l’autobus.
Quando gli passammo davanti non ci salutò, non alzò neanche la faccia per guardarci, e poiché in campo le squadre prima di noi stavano ancora giocando – mancavano sei minuti al suono della campanella – pensammo che stesse con loro e, dopo una breve occhiata, continuammo verso gli spogliatoi, senza più pensarci.
Eppure, già da quella prima occhiata, era impossibile evitare di pensarci. Era stata la sua faccia tonda con gli occhi spiritati, oppure la forma della testa così simile a un pallone, con quei capelli tagliati corti come Mr Been, oppure le narici così pronunciate e mollacciose, o l’espressione da copertina dei libri di Carver, non lo sapevamo. Probabilmente tutto insieme, la divisa bianca, il piede che dondolava, ma forse la posa, semplicemente la posa: aveva qualcosa di tanto mediocre quanto memorabile. Impossibile evitare di pensarci. Dalla prima occhiata era già diventato l’Intruso, anche se non ne avevamo ancora coscienza.
Noi eravamo accaniti e sistematici, giocatori del giovedì sera, puntuali e passionali, esclusivi. Quando giocavamo era come se il mondo dovesse finire. Tutta la settimana ruotava attorno alla partita del giovedì sera, ci giocavamo le vite su quel campo, a ogni tiro, a ogni gol, a ogni passaggio. Tenevamo all’eleganza, e col tempo avevamo abbellito i gesti tipici – stop, assist, colpo di testa, cross – fino quasi a farli diventare una sorta di danza del calcetto. Le nostre divise erano personalizzate, squadra blu, squadra rossa, ognuno di noi aveva sia la maglia blu che quella rossa, con il proprio nome scritto dietro, perché fino a un attimo prima di iniziare la partita non sapevamo in quale squadra ci avrebbe messo il Mister. Era il nostro modo di movimentare il gioco e ne andavamo fieri. Il Mister era uno di noi, giocatore tra i giocatori, e ogni giovedì cambiava, a rotazione.
Quella sera, quando facemmo il nostro ingresso, dirigendoci in due file distinte verso il pallone al centro del campo, l’Intruso era ancora lì, seduto in panchina, nella stessa identica posizione in cui lo avevamo visto arrivando. Non sapevamo ancora chi fosse e cosa volesse, e assurdamente non badammo molto alla sua presenza.
Alle nove in punto, come ogni settimana, il proprietario del centro sportivo varcò l’uscio e andò, col suo passo da orchite, verso la campanella accanto alle panchine. Interrompeva la cena per noi, e ogni volta avanzava deciso passandosi la lingua sulle gengive, facendosi implodere qualche rutto in bocca. Lo chiamavamo Ciabatta, perché portava sempre ai piedi un paio di ridicole vecchie ciabatte anni Novanta della Fila, blu con lo strappo, la cui vista ogni volta ci suscitava pensieri estremi di decadenza e barbonaggine. Ce lo immaginavamo come un reietto senza conto in banca, che campava alla giornata e aveva solo un paio di pantaloni, quelli della tuta Adidas neri con la doppia riga gialla che portava sempre, e due camicie, una estiva e una invernale rossa e nera a motivo scozzese, e di certo dormiva nel centro sportivo, su una brandina da campo, nella nicchia da roditore che si era ricavato dentro qualche sgabuzzino, illuminata da una lampadina a incandescenza nuda.
Quella sera maledetta, la prima anomalia fu un movimento sorprendente di Ciabatta – un presagio di catastrofe che sottovalutammo: aprì il cancelletto e si avviò lungo il bordo del campo. Ci saremmo aspettati che nel giro di qualche secondo suonasse la campanella, e poi scivolasse indietro come un’ombra verso il bar, dove si stravaccava su una vecchia sdraio da mare a guardare la televisione accanto a sua moglie. Ma quella volta, un attimo prima di tirarla giù, Ciabatta si fermò con la catenella in mano, rimase immobile a guardarci, e con grande stupore lo vedemmo muovere la testa e spostare lo sguardo su ognuno di noi come se ci stesse contando silenziosamente.
Quanti siete?, disse.
Che?, facemmo noi.
Siete nove, disse lui. Che faccio suono lo stesso?
Restammo di stucco. Possibile? Ci contammo velocemente, e quando capimmo che in campo eravamo davvero nove, ci venne spontaneo voltare gli occhi verso l’Intruso, come se dalla sua figura potesse manifestarsi il cuore aperto del mistero, mentre lui se ne stava dimenticato sulla panchina, con la testa bassa sullo smartphone, i pollici mobili sul display come le antenne di un grillo, nella sua divisa bianca con gli scarpini intonsi; e lo guardammo quasi scocciati, con risentimento, severi e petulanti, in attesa di spiegazioni.
Sentendosi i nostri occhi addosso credette che fosse doveroso parlare, e infatti, un attimo dopo, alzandosi in piedi disse: Già iniziamo?
Molte cose di lui avevano cominciato a infastidirci già prima che lo vedessimo in azione, ma ora, mentre faceva riscaldamento sul lungo linea, ignorando il fatto che noi eravamo già schierati in campo, pronti da un pezzo a dare il calcio di inizio, la nostra irritazione era tangibile.
L’Intruso aveva un modo imbarazzante di fare riscaldamento: correva sul posto sollevando le ginocchia, le mani ridicolmente dritte come un soldato in marcia, con quella lentezza da elefante; faceva stretching con le gambe larghe, non arrivava nemmeno a toccarsi le caviglie con la punta delle dita.
Irritati e nauseati, aspettammo che finisse quel suo interminabile riscaldamento.
Sono pronto, disse finalmente, e con una lentezza esasperante, come quei calciatori che non si aspettano la sostituzione e vanno verso gli spogliatoi a passo di tartaruga, l’Intruso entrò in campo.
Con che squadra sono?, disse saltellando sul posto.
Calò un silenzio come di letargo. D’improvviso ci fu un risveglio, l’attaccante dei rossi rispose: Blu. Il difensore dei blu disse: Rossi, e l’immobilità di pochi secondi prima si trasformò in caos.
Alla fine fummo costretti a chiamare un time out e riunirci attorno al cerchio di centrocampo, lasciando l’Intruso ai margini. Facemmo un capannello in modo che non ci sentisse.
So a cosa state pensando, disse uno di noi, prendendo in mano la situazione; ci guardò negli occhi uno per uno: Sono convinto però che adesso dovremmo sorvolare sull’assenza ingiustificata e concentrarci sulla partita.
Quindi chi è che manca?
Giorgio.
Non ha avvertito?
Avevo detto di sorvolare.
Non si fa così, però.
Ne parliamo dopo, va bene?
Propongo di toglierlo dal gruppo di whatsapp.
Che gli è successo?
Possiamo parlarne dopo per favore che la lancetta avanza?
La moglie, sicuro.
Ancora?
Non vuole che giochi, lo sappiamo tutti.
Boicotta, da sempre.
Che ce ne frega?
Non aveva risolto?
Aveva detto di sì: no problem!
Col cazzo.
Quindi quel tipo?
Quel tipo chi?
Uno di noi sollevò la testa e lo guardò.
L’ha chiamato Giorgio?
Perché non ce l’ha detto?
Siete sicuri che l’ha chiamato lui?
Silenzio.
Mister! Lo guardammo negli occhi, non c’era bisogno di parole.
Ok, vado, disse.
Il Mister si staccò dal capannello e con passo deciso, sui suoi scarpini Pantofola D’oro, si avvicinò all’Intruso.
Scusami, sai, una domanda, così, per curiosità: ma che per caso conosci Giorgio Pani?
Come no, è mio cognato, rispose l’Intruso.
Ah, ecco.
Il Mister avrebbe voluto voltarsi verso di noi: non lo fece, per non dare nell’occhio, ma avevamo capito ugualmente cosa stava pensando: quella stronza della moglie di Giorgio boicotta eccome!
Quindi ti ha detto lui di venire stasera?
Yess!, disse l’Intruso, proprio così: Yess!
Non potevamo vedere la faccia del Mister, perché in quel momento ci dava le spalle, ma eravamo certi che a quella risposta, «Yess», detta con quel tono di sufficienza, deve aver guardato l’Intruso come si guarda un pedofilo al parco che vuole spingere il seggiolino dell’altalena dove è seduta tua figlia.
Quando tornò da noi, il Mister disse: Cedo la mia fascia da Mister, così quando gli spaccherò la tibia con un fallo lo farò senza remore.
La prendo io, basta che si gioca, disse il più giovane e impulsivo di noi. Si strinse la fascetta al braccio. Siamo nove, no?, ci serve uno? Ecco, ce l’abbiamo: Tu, coso, come ti chiami, squadra blu, vai. Ce l’hai una maglia blu?
No, disse l’Intruso.
Va bene quella che c’hai sotto, la maglia della salute, disse il nuovo Mister.
Tutti avevamo notato, con fastidio, il bordo del colletto che spuntava da sotto la V della sua divisa bianca.
Ma è azzurrina, disse uno di noi, il più pignolo.
E che cazzo!, sbottò il Mister. Fa lo stesso, no?: blu, azzurra, sono uguali, che cazzo, basta che giochiamo cazzo.
Con nostra grande sorpresa l’Intruso disse: Va bene, solo un attimo. Si tolse la maglia bianca, la strinse tra le cosce, rimase con la maglietta della salute azzurrina, poi si tolse anche quella, rimase a torso nudo, mostrandoci per qualche secondo lo scempio del barilotto di birra della sua pancia, poi infilò la maglia della divisa e sopra, faticando a infilarci dentro la testa, quella azzurrina della salute.
Sono pronto, disse. Iniziamo?
Il primo gol lo fece per caso. Era lì, davanti alla porta avversaria, come uno di quegli odiosi attaccanti che non hanno fiato per correre e restano fermi nella trequarti avversaria, parassitari e destabilizzanti, e noi per questo lo stavamo detestando già da dieci minuti, sia noi della squadra avversaria che noi componenti della sua squadra, quando d’un tratto gli arriva una palla fortuita in mezzo ai piedi e: toc, la butta dentro con il piatto. Uno a zero per la squadra blu.
Ma la nostra tristezza per lo svantaggio e la perplessità della squadra blu sulla validità etica di quel gol dovettero restare sospese in uno stand-by allibito quando l’Intruso, dopo un attimo di altezzosa apnea, cominciò a esultare, sbracciandosi in una corsa invasata per tutto il campo. Goool, Goool, Go Go Goooooollll.
Pensavamo di non poterlo odiare più di così. Ci sbagliavamo.
Il secondo gol venne dopo due minuti dal primo, e ci lasciò senza fiato. Dopo un colpo di testa malfatto di un difensore, la palla gli arrivò sui piedi a trequarti campo, lui aspettò che facesse un altro rimbalzo, poi caricò il sinistro e, con un movimento di cui non capimmo la velocità, impattò di collo pieno il pallone che sfiorò come un proiettile l’orecchio di un difensore avversario infilandosi sotto il set davanti allo sguardo lesso del portiere.
Restammo tutti fermi, a guardare sbalorditi la rete della porta che ancora vibrava della potenza di quel tiro e della feroce perfezione con la quale era stato eseguito. D’un tratto uno di noi accennò timidamente a un applauso. Lo fulminammo all’istante con i nostri sguardi severi, dicendoci intimamente convinti che un gol del genere non poteva che essere il frutto di un casuale colpo di fortuna del principiante.
A qualcuno di noi non sfuggì il contrasto disarmante che si era creato tra l’esultanza scomposta pacchiana del primo gol, quella merda di gol, e la fredda compostezza inglese che l’Intruso aveva ostentato dopo il secondo: neanche aveva alzato le mani al cielo, neanche aveva accennato un passetto di danza come quegli zotici giocatori della televisione, niente: con una decentissima corsetta defaticante, quasi a testa bassa, era tornato al suo posto nella sua parte di campo, assomigliando piuttosto a un giocatore appena ammonito che a un bomber che ha fatto un gol formidabile. Ma fu un pensiero fugace, ce lo tenemmo per noi, intanto che la partita continuava.
Cross, assist, colpi di testa, triangolazioni. Nonostante lo svantaggio, le squadre si equivalevano, come sempre nelle nostre partite, tutte giocate all’ultimo sangue, incerte fino all’ultimo secondo. Alla mezz’ora – eravamo sei a cinque – ecco il gol della squadra rossa, un perfetto colpo di testa su calcio d’angolo: parità.
Durante i cinque minuti di pausa a bordo campo, guardammo tutti con molta curiosità la bottiglietta color arancio fosforescente che l’Intruso aveva preso dalla borsa e trangugiava, un po’ scostato da noi, con un rivolo osceno che gli colava dal labbro inferiore.
Gatorade!, sussurrò uno di noi, con un colpetto di gomito.
Come si fa a bere quella merda di integratore?
Mia moglie lo beve.
Che?
Il Gatorade.
Per questo le hai chiesto il divorzio?
Veramente me l’ha chiesto lei.
Glielo dovresti concedere.
L’avvocato dice che non mi conviene.
Che te ne frega dell’avvocato!
Dice che se divorzio devo darle un sacco di soldi.
Che ti frega, mica ti mancano!
Ce li metti tu?
Questo era Carmelo, quello di noi un po’ più sfigato e tonto. Giocava sempre di rimessa e non faceva un gol manco a spingerlo in porta con la palla legata al piede. Ma era ricco e generoso, spesso pagava il campo per tutti, e questo bastava per farlo entrare nelle nostre grazie. Già da un po’ sapevamo che era proprio l’avvocato a scoparsi sua moglie, ma nessuno osava confessarlo. Era stato uno di noi a dircelo, Mauro, la nostra ala destra, nonché assistente dell’avvocato. Era stato assunto da pochi mesi e una sera, dopo l’orario di lavoro, aveva aperto senza bussare la porta dello studio del capo in cerca di un documento, certo che fosse già uscito. Ops! Aveva beccato lui e la moglie di Carmelo che scopavano sulla scrivania.
Ce l’aveva raccontato il giovedì successivo, e prima che Carmelo il cornuto si avvicinasse a noi e potesse ascoltare, aveva anche condiviso, così, en passant, l’idea di ricattare il capo con quella faccenda per farsi rinnovare il contratto a progetto di sei mesi. Mauro era uno di noi, uno dei più chiacchieroni, e macinava la fascia come un treno, avanti e indietro, era insostituibile, e adesso giocava nella stessa squadra del cornuto, che farci? Però aveva cuore, e non gli mancava un senso di umanità, perché gli passava sempre la palla, al cornuto, la passava solo a lui in realtà: dopo quella storia di sua moglie e dell’avvocato, e dopo aver pensato di usarla come arma di ricatto per il rinnovo del contratto, aveva sviluppato un preciso senso di colpa, e provava anche pena per Carmelo, poverino!, ritrovarsi una moglie troia deve essere proprio un calvario, infatti col cazzo che mi sposo io! Palla, palla, bassa, sui piedi, scatta, chiudi il triangolo, scatta, no, che cazzo!, manco questa hai preso!, non prendi mai un cazzo!
Scusa, disse Carmelo il cornuto alzando la mano, mi è mancato il fiato. E dopo quell’occasione sfumata la partita proseguì sul sette pari.
A un certo punto, a metà della ripresa, eravamo certi che l’Intruso avesse finito le energie, perché dopo una corsa per recuperare la palla lo vedemmo ansimare piegato un due, con le mani sulle ginocchia, e quindi era fatta, non poteva reggere il nostro ritmo, era già spompato, e sarebbe stato facile per noi sfancularlo con una motivazione di questo genere: non ce la fai, non sei all’altezza della nostra preparazione, non puoi tornare, nisba, stop, arrivederci, bello il gol di collo sotto il set, figurati, ma non c’è sostanza nel tuo gioco, sorry, ciao, di’ a tuo cognato Giorgio che è un coglione!
Invece – botta di culo – proprio mentre riprendeva fiato a centrocampo, ecco un liscio del difensore, un rinvio carambolato: la palla sguscia dalla mischia difensiva e lui se la ritrova davanti, lanciata verso la porta avversaria in un suggerimento di contropiede ineludibile, e allora lui si drizza sulla schiena, parte alla rincorsa, intercetta la palla, la sospinge in avanti con la punta, un tocco delicatissimo, ha campo libero, la difesa sguarnita cerca di recuperare ma è troppo indietro, c’è solo il portiere tra lui e il gol, è già a trequarti campo.
Adesso tira e la manda alle stelle, pensiamo.
Adesso se la allunga troppo e il portiere la prende, pensiamo.
Non può fare gol così, pensiamo. Proprio in quel momento il portiere esce, gli corre incontro: La prendo, pensa, La prendo. Noooo, urliamo noi, perché vediamo subito che è in ritardo sull’Intruso, al quale adesso, col portiere spiazzato, basterebbe toccare appena la palla col piatto per metterla in porta, toc; e allora noi della squadra blu seguiamo l’azione con le bocche spalancate, come una moviola, noi della squadra rossa urliamo al portiere di rientrare in porta, Rientraaaa, e le nostre voci vanno al rallentatore, Riiieeennttrraa!, ed è proprio in quel momento che l’Intruso fa un gesto impossibile – impossibile! – una cosa da storia del calcio, una cosa da Le cento perle del calcio di tutti i tempi.
Sarebbe bastato che toccasse la palla col piatto, il portiere era già spiazzato, era facile, un gol già fatto, che ci avrebbe portato in vantaggio e difficilmente avremmo potuto recuperare. Invece no: lui che fa?
Una veronica fa!, al portiere, capito?: con un tocco delicatissimo si sposta il pallone sul piede sinistro, il portiere è a un metro, sta per scivolargli in tackle, lui lo vede sollevando appena lo sguardo, e così poggia il piede destro sul pallone, già lanciato verso il gesto impossibile, lo porta leggermente indietro: subito lo arpiona col sinistro, ed ecco la piroetta: poggia la pianta del piede sul pallone che gli fa da perno e ruota su se stesso come una ballerina, e quando torna in posizione il pallone è lì davanti, e lui è in perfetto equilibrio, come se quella veronica non fosse stato un gesto impossibile ma un lieve inciampo dal quale si era subito ripreso, e la porta è vuota: gli basta appoggiare la palla con la punta, toc, gol!
Che dire?
Stavolta esultò: fece un salto e tirò in alto il pugno ruotando su se stesso con un piccolo urlo: Evvai!
Squadra blu in vantaggio.
Che dire?
Si sentì un debole battito di mani: bravo, disse uno di noi, e nessuno ebbe il coraggio di smentirlo.
Nonostante mancassero ancora sette minuti alla fine della partita, noi della squadra rossa non riuscimmo più a fare un gol, mentre noi della squadra blu aumentammo il vantaggio di due, e finimmo dieci a sette.
Ma si vedeva lontano un miglio che non eravamo più gli stessi. Tornammo agli spogliatoi con la sensazione che dentro di noi qualcosa si fosse sgretolato per sempre, come se fossimo stati saccheggiati, privati di qualcosa di molto importante che fino ad allora non sapevamo neanche di avere. Eravamo abbattuti e svuotati, increduli, appannati. Non riuscivamo ad assorbire il colpo. Non sapevamo farcene una ragione. Fino a un giovedì prima era tutto normale, eravamo i giocatori più in forma del campionato galattico, perfetti ed esclusivi, potevamo perfino permetterci snobberie come lo sponsor sulla maglietta – FT termoidraulica e climatizzatori –, mentre adesso eravamo allo sbando: come era potuto capitare proprio a noi?
Avevamo perso tutto, ed era successo nell’esatto momento della moviola in cui l’Intruso aveva poggiato il piede sinistro sul pallone cominciando il suo movimento di rotazione, un attimo prima di voltarsi e mettere la palla in rete. Quel gesto ci aveva fatto perdere tutto, la nostra sicurezza, la nostra audacia, la nostra identità, anche se ci vollero almeno altre due settimane prima che ce ne rendessimo conto pienamente.
Il giovedì successivo tornammo a giocare, tornò anche Giorgio, il responsabile inconsapevole del nostro decadimento. Non disse niente a proposito del cognato e noi non gli chiedemmo niente. Tornammo anche il giovedì successivo, ma negli spogliatoi eravamo in otto, e quando Ciabatta suonò la campanella di inizio, ci accorgemmo che uno di noi era andato via senza neanche cambiarsi. Sul gruppo di whatsapp scrisse che non aveva retto la tristezza dello spogliatoio. Ci fece anche notare che nessuno, arrivando, aveva fatto battute sulla moglie di Ciabatta, il che, concluse, è un segno inequivocabile. E abbandonò il gruppo.
Quanto all’Intruso, nessuno di noi ebbe più sue notizie.
Quando ormai avevamo smesso da tempo di giocare, e il giovedì sera era diventato per ognuno il contenitore delle proprie disperazioni – uno di noi perse i risparmi di una vita ai videopoker, giocando solo di giovedì, dalle nove alle dieci –, capitò una sera di incontrarci per caso al bar – eravamo in quattro – e qualcuno trovò il coraggio di chiedere se avevamo notizie del tipo con la divisa bianca che quella volta aveva giocato con noi, Come si chiamava? – nessuno ancora riusciva ad ammettere davanti agli altri che era stato proprio lui la causa del nostro fallimento, lui e quel gol con la veronica, sebbene a quel tempo ne fossimo tutti consapevoli –, il cognato di Giorgio, sì. Come si chiamava?
Giorgio l’avete più sentito?
L’ho sentito io, qualche giorno fa, sta inguaiato.
Sta proprio inguaiato, poraccio, roba di banche.
Mi ha chiesto pure un prestito.
E chi ce l’ha?
Io proprio no.
Silenzio. Prendemmo un sorso di birra.
Ma il cognato, come si chiamava?
Boh.
Chi lo sa?
Mi ha detto Giorgio che è partito. Ha lasciato la moglie ed è partito, addios.
E dov’è andato?, chiese uno di noi dopo una pausa.
Sorseggiammo la birra, temporeggiammo ancora, perché volevamo che la risposta fosse d’effetto:
Brasile.
Da solo?
Con l’amante, ventenne.
Azz!
Me l’ha detto Giorgio.
Ci salutammo, ma un attimo prima di andare via uno disse: Qualcuno sa di Carmelo, il cornuto? Che fine ha fatto?
Era stato il giovane assistente dell’avvocato a chiederlo, la nostra ex ala destra, che adesso faceva le consegne porta a porta per la FedEx, con un contratto interinale a cinque euro l’ora.
Ma nessuno sapeva niente.
E adesso vi chiederete perché tra di noi la curiosità per le sorti di Carmelo il cornuto era pari a quella per l’Intruso.
Ebbene quel giovedì fatidico, quando tornammo negli spogliatoi, dopo la partita, chissà perché chissà percome, cominciammo a parlare di mogli e divorzio, e mentre ci toglievamo le divise e gli scarpini, venne fuori il nome dell’avvocato Mauro C., che per qualcuno era un coglione, ma no, in fondo era una brava persona, comunque un ottimo avvocato, e forse sì e forse no, proprio nell’attimo in cui ci eravamo resi conto che era il caso di cambiare argomento, per evitare che Carmelo il cornuto potesse insospettirsi, ecco che l’Intruso se ne esce dicendo che l’aveva incontrato proprio l’altra sera l’avvocato, aspetta, dov’era? Sì, al McDrive, disse, esattamente, era proprio al McDrive, e stava con una cosa bona al sedile di fianco con due zinne così che sembrava l’airbag aperto, ahaha, proprio una cosa bona, ho pensato: guarda sto cazzo di avvocato, zitto zitto scopa eccome!, ahaha, però non stava con la macchina sua, no no, la macchina sua la conosco è un’altra: stava con un’Audi di quelle vecchie, A2, A3, non mi ricordo; anche se era un po’ passata la bonazza, devo dirlo, bona senz’altro, ma un po’ passata, co sti capelli un po’ anni Ottanta, sto vestito che non si vedeva bene dalla macchina, è vero, un po’ scollato un po’ no, e poi slinguazzavano che era una meraviglia, slurp, ho pensato guarda sto cazzo di avvocato mo questa gli fa pure un pompino in mezzo alla via, sta maialona!, e pure quando è arrivato il ragazzetto con la busta dei panini, continuavano a slinguazzare come due adolescenti, ahaha! Chissà chi cazzo era quella biondona, mo quasi quasi glielo dico: se proprio la vuoi scartare che è passata, magari mi ci faccio un giro io! Con la parcella che ti pago ogni mese vorrei vedere se non mi tocca una bella ripassata!
Si fermò, accorgendosi del gelo sui nostri volti, si guardò intorno. Che c’è?
Lo fissavamo sbigottiti, senza fare un fiato.
Che c’è?, fece di nuovo.
Fu Carmelo a parlare, e la sua voce tremava.
Quell’Audi che hai detto tutta scassata, esordì, di che colore era? E poi continuò, e bastarono un paio di dettagli per capire che l’Intruso stava parlando di sua moglie.
Nessuno osò aprire bocca finché Carmelo non andò via, con la testa bassa, ancora in divisa e scarpini, senza neanche farsi la doccia. Non lo avremmo visto mai più.
E allora l’Intruso fece Bah!, che ne sapevo io? E a un certo punto si voltò verso di me, che per caso ero seduto accanto a lui, mi diede una pacca sulla spalla, mentre mi sfilavo i calzerotti: Bravo, mi disse, giochi bene, hai fatto un bell’assist! E andò a farsi la doccia, fischiettando.