«You might as well start by confessing your greatest shame.
Anything else would just be exposition.»
Sarah Manguso
Emme sta seduta su un plinto con un mazzo di fiori in mano nella blusa di cotone filato della madre tre volte la sua taglia. Due moscerini le girano intorno come a una mela, o una pesca. Non può avere più di venticinque o ventisette anni. La proposta di matrimonio è arrivata per posta, una cartolina vecchio stile. Lei la aspettava. Dal plinto Emme chiama un taxi, passa vicino alla statua di Poseidone con il tridente perpendicolare, pressa i fiori nel vano posteriore e si fa portare in aeroporto. Emme viene da me senza saperlo, di corsa con il vento tra i capelli, ma viene da me per poi quasi immediatamente andare via.
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Ogni anno, la mattina del solstizio d’estate, una certa massa di ricordi raggiunge la sua declinazione massima. Forse è un giorno che ho scelto inconsciamente ma con cura. Infilo la maglietta di lino giallo, i pantaloni della tuta, metto il rossetto rosso e preparo un Bloody Mary tra indice e medio. Poi prendo il blocco A3 rigonfio che io ed Emme abbiamo riempito di cose tre anni fa e scendo in strada. Il mio cocktail nel parco pubblico è una piccola isola con piccola vegetazione. Dove io vedo palme e roccia lei vedrebbe molluschi, cose lisce e bagnate che si ritirano immediatamente quando una caviglia le sfiora sott’acqua. La famiglia di Emme torna una volta all’anno al mare di Java, dove Emme spesso fotografa la nonna. La nonna è vecchia quanto è bella, ha la pelle colore del legno tek, clavicole perfette, e ha smesso di gettare reti da pesca in mezzo ai campi di riso solo da poco. La mia fa fatica a camminare ma non perde una processione, sempre con la stessa amica amica al fianco e lo stesso fazzoletto in testa. Il suo momento preferito è quando la folla di donne intona: «Stava la madre / Tutta dolorosa». Mi dice che il punto è cercare di cantarla uguale all’anno prima, e all’anno prima ancora e ancora, indietro di sessant’anni. Mi dice: «Il trucco, nelle favole come nel sesso, sta nella ripetizione».
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Prima di parlarle avevo più o meno stabilito che Emme fosse vietnamita. Non riuscivo a localizzarla più precisamente che in un vago Sud-Est asiatico. La mia confusione di fronte a fenotipi e strutture ossee mi metteva a disagio. Ripassavo mentalmente le due settimane di lavoro in un negozio di oggetti giapponesi, le persone che avevo incontrato. L’antologia di racconti di autori londinesi da Timor Est. Cigni Selvatici. Le altre cose sulla Cina maoista che avevo letto al liceo. Tiziano Terzani. La prosodia larga e ascendente dei sudcoreani nel chiostro del Conservatorio. Studio Ghibli. Non volevo far partire la macchina del razzismo involontariamente. Ma poi Emme si è rivelata solo una manciata di mesi più vecchia di me, e una ballerina anche lei, solo con una serie di ingaggi migliori alle spalle. Abbiamo scoperto di avere le stesse ginocchia, come i nasi di due gemelle. La ragione della mia ignoranza è che non avevo mai incontrato nessun balinese, mai visto un film ambientato a Bali, mai letto nulla sull’isola. Bali come l’Isola che non c’è, un Paese fatto di tiare dorate e donne sorridenti. Bali come la Honolulu di mago Merlino, un posto impossibile da immaginare davvero, misura del mio piccolo cuore dalla provincia d’Europa. Quando Emme ha parlato per la prima volta, un accento cockney le ha riempito la bocca come un animale vivo, tutte le t saltate a piè pari, le consonanti come se sputasse frange di organza. Ogni elemento della sua faccia separato dagli altri con un colpo chirurgico, la bocca e gli occhi neri, la fronte e le ciglia. Immagina una bambola Bratz senza trucco e con proporzioni umane.
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Emme
Sesso: F | Significato: «universale» | Origine: Stati Uniti, nome inventato, omonimo di Emmy.
Introdotto dalla modella plus-size Emme (nata Melissa), è diventato un legittimo esponente del gruppo di nomi per bambine che iniziano per -m, soprattutto dopo essere stato scelto da Jennifer Lopez e Marc Anthony per la loro gemella.
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L’1 luglio, molto tardi nella notte o molto presto di mattina, io ed Emme usciamo insieme dal Dietrich Club su Romilly Street. Fumiamo una canna e poi fermiamo un taxi coperto di glitter su fondo fucsia. Sul taxi c’è il nome di uno show miracoloso che ha fatto Off Broadway/Broadway/Berlino/West End in cinque anni. Lo spettacolo si chiama X-ROD. Dal fondo fucsia del poster si allargano dei capelli castani che ricordano liane, o corde. Emme mi dice che è stata una delle prime persone a vedere lo show in un piccolo teatro di New York. Mi dice che portava lo stesso bomber bianco, e che andare a vedere X-ROD sul serio, e non semplicemente dire di esserci andati, è come la differenza tra un Proust immacolato su uno scaffale e un Proust annotato. Mi dice di avere lasciato dei segni su X-ROD e di avere lasciato dei segni su Proust e su ogni cosa abbia letto o visto. Emme non ha paura di essere sicura di sé. Mi fa pensare a un organismo altamente funzionale. Una conciliazione. La vedo a un opening, più alta di me e dorata. Sto avendo questi pensieri che mi disturbano.
Voglio quello che è tuo. Tu stretta in un costume hawaiano che balli sul mio comodino quando ti innesco. Attaccata a una cornetta con me dall’altra parte, concentrata su di me ventiquattro ore su ventiquattro. Ti vedo sott’acqua con le parole che escono come bolle mute quando cerchi di comunicare. Voglio rubare le tue ossa i tuoi vestiti la tua voce soffiata la tua carriera. La tua carriera sopra ogni cosa. Nei sogni ti stringo come si stringe una sorella, ti passo le mani tra i capelli e cucino grandi pasti per te. Tenera. Ma ti vedo anche in rovina, in piccoli flash allucinati che mi fanno schifo. In rovina: con la testa tra le mani, o una pistola alla tempia. Lasciata sola. Con i polsi rotti. La gotta. Una ex-ballerina che beve troppo. Ufficialmente vecchia a quarant’anni. Resa stupida dalle circostanze. Siamo due estranee in un taxi e questi flash sono impossibili da fermare. Mi bruciano lo sterno.
Ma tu mi guardi dritta negli occhi e sembri dire: «Lo so. Va bene».
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Porto i capelli corti appena sotto il livello pixie e la montatura per occhiali spedita da Wroclaw per 120 zloty. Passo la cipria sulle labbra. Le mie sopracciglia sono state tatuate l’ultima volta da una ragazza di Miami con proprie sopracciglia in perfetto equilibrio tra soffice e cespuglioso e un trillo orizzontale per voce. Le mie sono un saggio sull’entropia, ogni singolo pelo in una direzione diversa, alcuni aggrappati a inspiegabili vertigini, ognuno destabilizzato dagli altri. Se l’intera pratica del trucco è una teleologia, una teoria della salvezza, noi siamo entrambe eretiche relapse. Il tuo septum farebbe spalancare gli occhi a sorelle e amiche italiane. Direbbero che sembri una mucca. Questi segni ci aiutano a riconoscerci. Siamo una comunità alienata e vogliamo sostenerci prima ancora di conoscerci. Vogliamo conoscerci prima ancora di conoscerci. Diciamo: con me sei al sicuro. Spesso è vero.
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Emme è autoironica. Emme è autoironica e assolutamente capace di introspezione. «Fammi scrivere» dice a un certo punto. Abbiamo parlato del fatto frustrante di seguire indicazioni altrui tutto il tempo. «Lasciami scrivere» dice, con il mio gatto accoccolato sul triangolo dell’addome. «Non c’è niente che te lo impedisca» dico io. Ma lei intende che alcuni sogni non vanno fatti distillare.
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Il 3 luglio siamo in un hut privato nella spiaggia finta. Io ho un bikini nero e lei un costume rosa con piccoli cupcake cuciti sopra. Io ho anche una felpa grigia con il cappuccio tirato su, occhiali da sole. Ieri ci siamo dette tutto. Tutto di tutto, su tutto. L’ultima volta che mi è successa una cosa del genere avevo nove anni e dei piccoli di pastore tedesco aggrappati al collo. Gli LP del padre della mia amica giravano all’infinito una samba sull’aria di mare e io e lei soffocavamo dalle risate. Portavamo canottierine nere e carta da zucchero, era vitale che fossimo insieme tutti i minuti.
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Mi hai raccontato tutto di te, ma anche così non sono riuscita a non vederti attraverso la lente-di-me. Allo stesso tempo, in un delirio di onnipotenza, credevo di essere capita, di essere vista attraverso la lente-di-me, anche da te.
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La spiaggia finta è rosa dal peso dei corpi, ogni struttura di legno e lacca. C’è la poetessa/modella relativamente famosa nello stallo dopo il nostro, robotica arroccata sulla sdraio. Un paio di ragazze lanciano bande per capelli per aria e a me sembra di leggerci: «classe sociale». Mezz’ora prima credevo di avere letto «trauma» nel fondo di caffè. Ho cercato di spiegare a Emme che oggi è domenica e la domenica le famiglie italiane andavano al mare, caricando nelle vecchie Alfa Romeo casse di cibo, mozzarella filante e bottiglie d’acqua e palloni gonfiabili e sedie-sdraio e ombrelloni a righe. Andavano nel più bel mare vicino, San Felice Circeo per esempio, e andavano tutti, tutte le generazioni spalmate di crema solare ordinatamente, ed erano famiglie. Le ho spiegato che dovevamo arrangiarci con la spiaggia finta nelle baracche a Camden, l’uva nera e l’uva bianca di Sainsbury’s e una Corona intorno a mezzogiorno.
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Ma prendi Emme e immergila in uno stanzone pieno di sconosciuti. Prendi, ad esempio, il seminterrato a Brixton in cui hanno annunciato i tre vincitori del Marmite Prize, il 2 luglio (tutte donne! hanno esclamato diversi artisti con le fronti imperlate di sudore). Emme volatile esplosiva si muove da un gruppo a un altro; non si fa intimidire dalle it-girls con i capelli gialli, la playlist etiope, gli stivali da sogno di una notte di mezza estate; né dalle signore della facoltà di cera, chiaramente più esperte di lei. Emme fa questa cosa quando ti parla, ti parla per pochissimo tempo ma in quel tempo ti dà tutto, avvicina la sua faccia a forma di cuore alla tua, la sua bocca rotonda al tuo orecchio, in qualche modo senza invadere il tuo spazio personale: ma prima che tu abbia potuto rispondere per davvero lei è già passata ad altro e ti sorride, certo, da lontano, come per dire che il filo non è spezzato. Tutti vogliono parlare con Emme.
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Una cosa che faccio sempre, per dire, è sbagliare il genere dei nomi di scrittori, membri di band, o altre persone la cui frequentazione è socialmente preziosa. In particolare inverto una coppia di editori di successo, nella mia mente lui è lei è lui è lei è lui.
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Il quarto giorno non ho chiamato Emme perché lei non ha chiamato me. E così il quinto, il sesto e il settimo, passati vicino al telefono in uno stato di stupore.
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Quale fresco inferno abbiamo incontrato sotto la spiaggia finta a Camden? C’è il discorso dello spazio personale. C’è il terzo polo, l’uomo, la vita reale. Emme ha deciso che sposarsi, in queste circostanze, è un fatto radicale, tutto il contrario delle opinioni sul matrimonio che avevamo prima, entrambe, separatamente. Emme dice: «Sposarsi per amore è un atto radicale».
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Emme e l’uomo sono in grado di lavorare nello stesso studio – una grande stanza con le pareti ocra dalle parti di Shepherd’s Bush – per ore e ore, per niente zuccherosi nonostante le pause per darsi piccoli baci sulle mani. Emme fa i suoi esercizi in quasi completo silenzio, imita il rumore dell’acqua con il respiro, e l’uomo, che fa il reporter per Al Jazeera e viaggia moltissimo e viene dal Connecticut e a volte porta una bandana, lavora con gli occhi fissi sul laptop. C’è sempre qualche videoconferenza in atto mentre Emme ripete il pas de bourrée. Emme dice: «Lo Ngorod a Bali è la fuga d’amore degli sposi. Gli sposi tornano solo a cose fatte, quando è troppo tardi per tornare indietro, e il matrimonio viene riconosciuto. Poi c’è una grande festa e tutti si divertono. I Balinesi sanno come divertirsi». E: «Io e Uomo vogliamo creare uno Ngorod internazionale, una fuga intercontinentale, una festa del desiderio. Uomo mi ha letto Deleuze due anni fa, quando ci eravamo appena incontrati. Io preparavo Onegin per la Royal Opera House e lui leggeva a voce alta e a me sembrava stesse leggendo delle poesie, non capivo nulla ma non volevo che smettesse, così in una pausa ho iniziato a ballarci sopra, a ballare sopra alle uniche due cose che mi sembrava di stare capendo, ossia: niente più triangolo mommy-daddy-baby, e che il presidente Schreber ha i raggi del cielo nel culo. Ho iniziato a immaginare il Balletto Dell’Ano Solare per una fottutissima platea di mezza età e alta borghesia, la stessa platea di stronzi a cui va di traverso l’acqua frizzante se vedono una ragazza di colore sul palco. Uomo ha iniziato a ridere e ridere con una luce negli occhi. “Il tuo modo animale di capire le cose” ha detto “è incredibile. Ho la pelle d’oca. Dobbiamo sposarci”».
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Dal momento che sono umana, sono programmata per dare e ricevere amore, e dal momento che sono Francesca, che sta a significare me nello specifico, sono programmata per bruciare lentamente se non posso dare e ricevere questo amore. Emme aveva moltissime conoscenze e frequentazioni, e tre o quattro amicizie di lunga data, ma io non sono rientrata in nessuna di queste categorie. Forse io ed Emme abbiamo avuto un matrimonio in bianco. Forse io ed Emme abbiamo avuto un’allucinazione.
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Questo regno è unito nei talloni dei marmi conquistati. È unito nella tua cucina, nel tuo caffè peruviano, nel fatto che sei tenera dietro le orecchie. Nel tuo accento. Sei un tesoro nazionale. Puoi sfamare un esercito. Giri molto veloce se ti mettono su un mangiadischi. Alla fermata di Tufnell Park due ragazzine russe sfregano le sneaker di Bambi contro la plastica. La più piccola guarda l’altra a bocca aperta.