Io abito in un palazzo sovietico di un tempo sovietico con gente sovietica caduta nel presente. Qualcuno ha detto, La Russia è cambiata, ma dopo averlo detto si è nascosto, e ci ha lasciati soli con queste parole.
Il portiere è stanco, è anziano, sembra che stia su quella sedia dal trentasei e non si muova per paura delle purghe. Sorride quasi, sghembo, volta lentissimo la pagina al giornale, solleva un occhio, l’altro, mi dice Zdravstvujte da cinque mesi e non mi riconosce mai. Ha un cappello storto grigio, incorporato come il quotidiano. Non lo toglie e non lo mette, il cappello resta lì, immobile, a imperitura memoria. Il portiere mi guarda, si gratta la nuca, mi dice Zdravstvujte come se io fossi la porta. Però non sono la porta, lo oltrepasso, esco.
Sulla strada c’è il ghiaccio, sul ghiaccio ci sono i passanti e i miei piedi nell’atto di scivolare, e non ultimo il riflesso del cantiere, gli operai tagiki, senza casco. Camminano, funamboli imprigionati nella lastra, non possono uscire dai contorni – ma sopra di me sento le voci scoordinate, si chiamano si azzuffano provano a correre sui tubi, non cadono, come attaccati a fili invisibili. Tra il ghiaccio sciolto si apre una pozza, è il mio fossato, e il ponte levatoio è un ponteggio sospeso nel vuoto, sul buco delle fondamenta. Tutto di legno, il soffitto a volta come un palagio antico. Dalle viti allentate e dai gemiti delle assi, passando sotto, puoi immaginare almeno sei modi in cui la trave appesa alla gru ti ucciderà di schianto. Ma non ti uccide, perché al mattino non si può morire.
La piazza è strana. C’è una base marziana che in realtà è un mercato con i tagiki sul tetto oblungo, e anche dentro. I tagiki a Mosca sono ovunque, hanno dono di ubiquità. Taglio per il mercato e mi distraggo, mi perdo nei colori, voglio mangiare tutto, comprare vasi e annusare spezie e rimestare il plov e soprattutto voglio anch’io salire su quel tetto e essere un tagiko e volare sulla città, sui cantieri in costruzione. Ma oggi è sabato, e io lavoro lontano. Scendo le scale del sottopassaggio e trovo l’amico flautista, che non è un amico mio e forse neppure un flautista di professione, però suona tutte le sigle televisive con il suo strumento fluorescente, illumina il buio del tunnel ora che le venditrici di scarpe di tela hanno dovuto chiudere i loro negozi sotterranei. Salgo altre scale, salgo persino alcune rampe, salgo così a lungo che dovrei forse trovarmi sulla cima della città infinita. Ma sono solo sullo stradone principale.
Al metrò mi aspetta Kirill. È il mio arcipope, non sono certa che questa parola esista però Kirill sì, lui esiste fortissimamente, non conosco mendicanti altrettanto solenni, tra le dita tiene le icone e una candela accesa oppure un piccolo vangelo o una campana, e per pochi rubli ci richiama alla preghiera, o sale e scende le scale, o agita il cero come un turibolo, o non fa niente però con molta grazia. Kirill non mi saluta, è impegnato a salvare le nostre anime di pendolari dal demonio. Tra le donne grasse sedute nei gabbiotti, che leggono la cabala nei quotidiani e pensano alle poesie d’amore dei loro giorni inventati, stanchissimi controllori si morsicano i baffi. Passa un soldato, vestito di tutto punto, con una grossa mitragliatrice in mano. È di plastica, mi dice, mentre la smonta nel vagone. È finta.
Da che eravamo tutti in piedi, di colpo siamo tutti seduti. Sono fermate come Puškinskaja a fare la gioia del trasporto pubblico – c’è un rimescolo e uno scambio di persone e appartenenze che nella vita vera non c’è mai, eri seduto e ora sei in piedi, eri dentro e ora sei fuori, comunque meglio distogliere lo sguardo da quel mitragliatore, e non guardare la babuška o ti toccherà cederle il posto. Porto uno zaino di libri in spalla, la mia fermata è l’ultima. Il posto mi spetta. Mentre il metrò procede senza scosse, la babuška si siede accanto a me, e sbuccia una mela – e io in quel momento vedo il diavolo, seduto a terra tutto curvo, le gambe incrociate, bellissimo, gli occhi melmosi che guardano le porte. Ha i capelli lunghi di un biondo spento, e una stella dipinta su una mano, siede per terra in mezzo al metrò e fissa i vetri di oblò di fronte a lui. Non dice nulla. Solo, a un certo punto, si alza. È alto molto più del vagone, tiene la testa storta sotto al peso del soffitto, ha gambe infinite nei pantaloni neri e la stella dipinta pare si muova. Aveva ragione Kirill a pregare per noi, a essere l’arcipope del nostro metrò, a salire e scendere quei gradini con il cero. Il diavolo ci guarda un attimo, si risiede. Non so quale fosse la sua fermata, ma fino a Kotel’niki non è mai arrivato.
Kotel’niki è una distesa selvaggia di grigio e grattacieli. Tutte le case cadono a pezzi insieme, ballerini di una danza sconosciuta. Si apre una piazza, un’altra, bocca sul bosco e più in là sul fiume. Ci sono le maršrutke quasi a brandelli, le porte a sventola, gli autisti distratti. Pago i miei trenta rubli per la corsa, respiro il fritto dalle cucine uzbeke, e attraverso a bordo dell’autobus malmesso gli alberi scarni bianchi, sul bianco della neve. I passeggeri cantano, l’autista pure. Io no, non conosco la canzone. La maršrutka ferma nel mezzo di un piazzale, scendiamo tutti, scivoliamo sul ghiaccio, cadiamo.
Oltre la piazza, solo fango e ghiaia. Il ghiaccio è sciolto. Traverso il bosco. Sono arrivata.
Lungo le scale del palazzo si aprono spiragli, dalle finestre come feritoie. A incastro sul corrimano, una grossa latta di sguscionka vuota, portacenere ai condomini, proprio sotto il divieto tassativo di fumare. Incontro la tana del gatto di casa, una creatura enorme rossa che mi dà sempre le spalle mentre salgo. Una sedia sul pianerottolo, lasciata per chi passi e voglia sedersi – è sfondata però, e chi passi e voglia sedersi deve salire almeno un altro piano, dove c’è la poltrona a forma di gatto. Non è sfondata però puzza. C’è un’altra poltrona pure, grigia e stracciata, e seduto ci è solo un paio di pantofole, più raramente un vecchio. Forse ci vivono dei bambini, al piano, perché le pareti sono tracciate di farfalle, e disegnate di orsi e fiori e palloncini – e a strapiombo sul lucernario chissà perché c’è una scatola di caffè solubile, e sotto un uomo che alla luce armeggia con un telefono rotto. Mi salutano tutti, al mio passaggio, specialmente il vecchio che fuma fingendo di essere in giardino, e prende il sole da una feritoia. Mi conoscono – sono l’insegnante di francese, sono italiana, ma questo non gli sembra un paradosso. Vengo di sabato, per arrotondare. Mi offrono il tè, i vicini mi invitano a guardare le foto della parata di maggio, mi scivolano in mano certi bicchierini unti di vodka. E ogni sabato dopo due ore di francese lascio i casermoni di Kotel’niki e torno a sdraiarmi tra i denti della metropoli.
Vorrei dire che vengo in questa casa ogni sabato per lavorare, ma non è vero. Io vengo per un istinto di sopravvivenza. Fuori da Mosca, fuori dalla polvere, ritrovo boschi e facce amiche e biscotti dimenticati dall’infanzia. In queste case a pezzi sono i superstiti della letteratura russa, ancora non masticati dal mondo moderno. Non sono stati falcidiati dal freddo, non sono ammuffiti per avidità. Vivono in case allegre piene di colori, decorate a mano e appese di quadretti e icone e immagini votive. C’è il pizzo ai muri, e sopra i tavolini. Il vetro è a intarsio, fatto a mano. E per le stanze sempre aperte della casa volano liberi i pappagalli – nella gabbia non ci stanno mai, se non per dormire. Tra queste mura io mi riconforto, e più non penso che sono indietro di parecchio con l’affitto – non importa più che l’ultimo stipendio fosse di soli quattrocento rubli, e che in banca il conto sia scoperto e che ogni tanto al supermercato io debba fare i numeri. In questo bosco le domande sono tutte diverse, rotolano verso l’inevitabile. Sono viva, ho ancora i piedi, ho chi mi offra dei biscotti? I debiti li salderà qualcun altro, o forse andrò in galera, e troverò un mio posto anche là, perché tanto non ero felice nemmeno libera per le strade. E nelle carceri tremende russe troverò i figli dei sottosuolo, i nostri diavoli arrestati controvoglia per essersi seduti troppo a lungo in terra, le vecchie scalze, uscite di senno per il freddo, e gli arcipopi di questo paese infinito, nel delirio dei loro sermoni, e gli ubriachi che vivono negli angoli, nei corridoi della metropolitana. Troverò gli zingari e i loro cavalli, le controllore grasse coi lavori a maglia e la lacrima pronta al pensiero di un amore finito, trent’anni prima, senza una parola – e i prestigiatori del pelapatate, che intagliano dèi dentro quegli ortaggi, e gli accattoni con l’organetto, le mani a rughe sulla manovella, le facce di pietra, forse già morti, eppure ancora in piedi, per pochi rubli a raccontarci una storia. Ma qualcuno ci salverà da quelle gabbie tristi e ci farà uscire – verrà il fantasma di Dostoevskij, negli occhi ancora la mancata esecuzione, e dietro a lui verranno i tagiki dai cantieri, volando senza mai morire, e porteranno via quelle prigioni tirandole per i capelli del tetto. E noi usciremo, come un grande esercito, e ci riverseremo per le strade, e invaderemo i luoghi che non ci vogliono e strapperemo le insegne e cambieremo le direzioni e romperemo tutti gli ordini, e ameremo così forte da aprire crepe nelle case.
A questo penso mentre pesto i piedi, e più non guardo i passi né la strada. E tra le facce di una povertà che si sgretola, tra i lastroni di lamiera e la calce e il pietrame, i flauti senza più vertebre e i violini senza denti degli ambulanti sotto il cielo di Mosca, io cammino, cammino, come se dovessi finire tutti i passi e poi ordinarne altri per telefono al produttore e altri ancora e altri ancora. Nel cielo la luna pende dall’estremo di ferro di una gru – attaccata fissa e stabile, impettita come una palla di cannone, una falce fiera che attende di essere sparata dall’altro capo del mondo – e nel nero del suolo e della volta senza stelle, mentre proseguo verso il cantiere muto, io vedo un topo che corre sulle strisce. Sguscia fra le auto, salta, si guarda intorno, attraversa nel pieno della legalità. E poi si ferma, nel cuore della strada. E nel cuore della strada mi fermo anch’io, e lui mi guarda, e io lo guardo, e un camion non ci capisce e ci fa segno, sbandando, di scostarci. Ma io guardo il topo, e lui pure immobile mi guarda, e il camion corre, e travalica le corsie – è notte e siamo tutti ubriachi, l’autista il topo io, anche chi non beve e non ha mai bevuto – l’uomo alla guida bestemmia, pesta coi piedi, e i fari ci sono a un passo dal tocco.
Ma non ci investe, perché questa notte è tarda, è quasi un’alba. E al mattino, si sa, non si può morire.
Superstiti
di Ida Amlesú
Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 23 e ha le etichette Ida Amlesú, Mosca. Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.