La casa è un bugigattolo al sesto piano in una traversa di rue du Cardinal Lemoine, numero 23bis. Erano, un tempo, le stanze della servitù, le ha detto la portinaia tintinnando il portachiavi a forma di gattino mentre il sorriso le scopriva una ragguardevole dentatura zincata. Lea, che credeva di sapere già tutto di quelle vecchie camere agli ultimi piani dei palazzi di Parigi, con le loro finestrelle come occhi stupiti sotto i tetti lividi e i cieli gonfi, pensò che il portachiavi era davvero brutto e che l’avrebbe sostituito con uno di cuoio. Sorrise alla portinaia e disse che sì, se quella era la cifra stabilita da Madame, per lei poteva andare bene. Avrebbe voluto aggiungere che il prezzo era ridicolo; non lo disse.
Purtroppo abbiamo tutti il brutto vizio di sottovalutare le nostre premonizioni, e Lea anche in questo non faceva eccezione. Scintillò la zincatura della portinaia a un riflesso del sole che si abbassava sui vetri delle case di fronte; il sorriso ora somigliava più alla smorfia di chi addenta un limone. Ma Lea non ci fece caso; guardò il palazzo dirimpetto dove qualcuno al quinto piano stava aprendo una finestra per bagnare i gerani, che forse però erano ranuncoli – da quella distanza era difficile dirlo. Aveva una gran barba nera. Le parve di vederlo ammiccare al sole che scendeva nell’aria fresca della sera; come una carezza pigra, arrivava la primavera.
Quando si ritrovò per strada, scalpitava di felicità. Si precipitò giù per la via in discesa, a balzelloni sghembi schivava il ticchettio dei passi di quelli che sapevano dove andare. Guardò in alto, cercando la sua finestra come si cerca, in piedi in cima al binario, nella risacca delle facce della folla, quella sola faccia che si aspetta. La trovò e le sorrise.
Traslocò in un battibaleno, perché non aveva quasi niente. Era partita con una valigia verde scuro con una ruota rotta, che bisognava trascinare per la maniglia e sperare che non si rompesse pure quella; un cesto di vimini, e dentro una piccola felce, pianta preistorica ancora adolescente comprata di fronte alla Gare de Lyon al momento del suo arrivo, sette giorni prima, al solo scopo di cambiare una banconota in una manciata di monetine da infilare nel distributore dei biglietti del metrò.
Da quel giorno Lea non aveva più parlato: al portiere di notte dell’ostello le era bastato ripetere due o tre volte il numero della sua stanza, alla portinaia zincata aveva sussurrato poco più che un monosillabo. Il suono della sua stessa voce la fece trasalire, appena entrata nella casa nuova. La porta era ancora aperta, la chiave nella toppa; chissà poi perché si era precipitata a tirare su la cornetta, lei che al telefono non rispondeva mai. Pronto, aveva detto; poi si era scusata, aveva cercato la parola giusta, mormorato Allô? Era arrossita perché dalla gola si era sentita uscire uno squittio, quasi una voce non sua. Dall’altra parte qualcuno cercava una certa Nathalie. Non c’è, rispose; forse ha sbagliato numero? La voce all’altro capo del filo era profonda eppure querula. Tossicchiò e le chiese se fosse sicura. Sono sicura sì, fece Lea, e la voce tacque.
Senza farci caso si era seduta per terra, nell’angolo fra la finestra e la stufa; se ne rese conto all’improvviso, intontita come in un risveglio. Lea non si sedeva mai per terra. Le facevano male le ginocchia: si chiese perché mai avesse preso quella posizione da supplice per rispondere al telefono. Per strada passava una signora in impermeabile chiaro, con un bassotto ispido al guinzaglio, in impermeabile chiaro pure lui, scontroso e altero come tutti i bassotti. Dall’altra parte della strada una mano improsciuttita chiudeva una tenda a fantasia optical arancio e marrone. Erano ranuncoli, i fiori.
Invece di alzarsi Lea guardava la sua casa. Alle pareti c’erano piccoli segni trasversali, cicatrici a prima vista impercettibili eppure impossibili da ignorare una volta che le si era notate; dovevano essere tracce lasciate dal nastro adesivo dei poster di chi aveva abitato lì prima di lei. La prese una tenue malinconia al pensiero di quel trasloco sconosciuto; pensò che forse aveva abitato la casa una ragazza come lei, provò a immaginarla, e la sorprese l’idea che potesse essere stata proprio Nathalie, che qualcuno ancora cercava a quell’indirizzo, a staccare i poster senza fare caso ai segni che restavano, a riavvolgerli in cilindretti fermati con un elastico, a lanciare dalla porta un ultimo sguardo su una stanza che forse, anzi quasi probabilmente, non avrebbe più rivisto. Decise che doveva trovare qualcosa da attaccare alle pareti, coprire i segni per tutto il tempo che avrebbe passato lì, e si sentì irrimediabilmente sola.
Fuori c’era il vento che a volte a Parigi arriva verso sera, a ricordare che il mare non è lontano, anche se è difficile immaginarlo. Lea non lo aveva mai sentito prima, perché non aveva mai abitato a Parigi; ma non c’è bisogno di conoscerlo già per riconoscerlo, il vento della primavera, insolente e allegro come un ragazzino. Si sorprese a pensare – non le capitava da molto tempo – che quell’ora della sera non era poi così terribile, mentre il cielo si spalancava sopra di lei e i rami scuri degli alberi parevano ancora impregnati della pioggia dell’inverno. La portinaia la salutò distrattamente dalla guardiola, con un cenno annoiato del mento; e per quel piccolo sgarbo, per la sua mancanza di zelo, Lea l’avrebbe voluta abbracciare – peccato che lei non abbracciasse nessuno, mai. Ma si era sentita una di casa, per la prima volta da quando essere di casa non era più un dettaglio implicito nella vita quotidiana com’era stato in un altro cortile lontano.
Accanto al portone c’era un caffè con l’insegna dipinta di color crema su fondo rosso, e i prezzi delle birre dei kir dei pastis e del vino a bicchiere scritti col gesso in lettere oblique sulla lavagna appesa fra i tavolini della terrasse deserta. Le sedie di midollino erano disposte tutte parallele, come sedili di un cinema dimenticato; sul tavolo più vicino alla porta c’erano un paio di cicche in un posacenere, sbiadita réclame della Perrier. Dietro al banco che si screpolava in piccole scaglie di vernice verde cupo il padrone asciugava bicchieri con uno straccio; alle sue spalle si affollavano in disordine le bottiglie rilucenti, una selva di Ricard e 51 e Fine de Bourgogne e vodke con nomi polacchi; e una piccola pila clandestina di stecche di sigarette, mezza nascosta dietro alla cassa, dava al caffè un’aria di covo di bucanieri, e fece nascere in Lea un desiderio sommesso di dissiparsi, di scomparire. Forse era solo che per la prima volta provava, con la cautela con cui si assaggia una prugnetta acerba, l’euforia triste di sentirsi soli, e stranieri, a Parigi.
L’uomo dietro al bancone era calvo; un grande naso uncinato occupava la gran parte della sua faccia. Alzò gli occhi su Lea senza dar segno di stupore, e le chiese qualcosa che la fece trasalire, prima di pensare di aver capito male. L’ometto col nasone a virgola le stava domandando se Mademoiselle voleva il solito. Non avendo mai messo piede prima in quel bar, seppe solo farfugliare una di quelle risposte che sono insieme un sì, un no e un forse, insomma le risposte degli imbarazzati, di tutti gli sventurati che temono di deludere l’interlocutore e quindi lasciano fare e si convincono, di fronte a una domanda, di non avere più nessuna preferenza.
Ma intanto quel ragguardevole rostro era già scomparso sotto il bancone per riemergerne con un bicchiere sottile e non proprio pulitissimo pieno fino all’orlo di spumeggiante succo di cassis. Un kir royal pour Maidemoselle, commentò sornione, e le rifilò insieme un pacco di Gauloises senza filtro, facendole scivolare sul bancone con destrezza da contrabbandiere. Lea non aveva mai fumato in vita sua, e nemmeno sapeva, fino a quel momento, cosa fosse un kir royal. Senza fiatare prese tutto e fece cenno al nasone che si sarebbe seduta fuori, dove c’era se non altro un posacenere. Non voleva rischiare di deludere il barista, anche se sentiva che tutta quella sollecitudine nasceva da un malinteso; anzi, forse proprio per questo.
Siccome non fumava, Lea non aveva un accendino; non voleva però disturbare l’ometto che dall’altra parte del vetro, con l’energia di un colibrì, aveva ripreso ad asciugare i suoi bicchieri. Assaggiò il kir asprigno e spumeggiante; e rimaneva lì, con la sigaretta in mano e la mano a mezz’aria, a chiedersi cosa fare, a dirsi che forse il barista, se continuava ad asciugare bicchieri, non avrebbe badato a lei e che quindi, magari, poteva finire di bere, rientrare a pagare, e poi andarsene senza che quello si accorgesse che non aveva fumato – senza che rimanesse deluso. La sorprese una fiammella proprio sotto al suo naso. Fece un salto indietro, istintivamente, mentre la mano che reggeva la fiammella le accendeva la sigaretta come se fosse la cosa più normale del mondo. Lea sorrise, aspirò e cercò di non tossire, ma si sentiva un pizzicorino nella gola. Sollevò gli occhi: il ragazzo era alto e aveva la forma di una grossa pera. Lea era certa di averlo già visto, ma non avrebbe saputo dire dove. Aveva una gran barba nera da cui uscivano due occhi scuri che sembravano proprio gli occhi di chi è sul punto di scoppiare in una risata, che però non scoppiava mai. Tutto il buonumore che pareva sottinteso fin nei più piccoli gesti di quel ragazzone placido fece sentire Lea, che da giorni non parlava a nessuno, un naufrago che vede lontano profilarsi il disegno di una nave. Si aggrappò a quella gentilezza inaspettata, persino alla strana confidenza con cui la trattava anche lui con la fiducia di un bambino assonnato che si addormenta lì dove si trova, come fosse un diritto.
Non le chiese il suo nome, e lei non lo chiese a lui. Entrò nel bar, scambiò due parole col barista e uscì con un enorme boccale di birra, che scolò in due sorsi da orco; continuarono a chiacchierare di sciocchezze, lui rideva con indulgenza del suo francese un po’ stentato, le faceva domande; lei abbassò gli occhi e raccontò che era partita per dimenticare una delusione; che aveva trovato un lavoro da vestiarista per una maison di moda, e fu fiera di dire le frasi che era sicura di saper dire bene, perché le aveva viste scritte nel contratto. Non gli chiese niente, per timidezza; ma per educazione rispose a tutte le domande di lui, e fu sincera perché non diceva mai bugie agli sconosciuti – perché avrebbe dovuto?
Quando ebbe finito il kir, si alzò; aveva la sensazione che le gambe le si fossero allungate, che la reggessero per uno strano miracolo della natura, si sentiva la testa avvolta di piume soffici e rosee, com’era rosa ormai tutto il cielo, nel tramonto di primavera striato di cirri e di scie d’aerei. Si rese conto che il tizio le stava dicendo qualcosa su quelle scie nel cielo, qualche nebulosa e già sentita teoria di complotto; ma lei aveva la testa tanto leggera per lo champagne che con sollievo si rese conto che poteva permettersi di ridere, e scuotere la testa, e quello non se la prendeva. Fece un cenno che voleva dire che doveva pagare, ma con un sorriso a trentadue denti il barista disse che no, aveva già pagato tutto il suo amico, Mademoiselle non doveva preoccuparsi. Lei stava per replicare che non aveva amici, che era appena arrivata e non conosceva nessuno; invece per cortesia sorrise e ringraziò il suo amico, e pensò che era stato molto gentile – e prima che se ne rendesse conto il cielo da rosa si era fatto turchino, e lei aveva accettato un invito a cena per l’indomani.
Venne a prenderla come a un vero appuntamento, con la camicia infilata nella cintura, i capelli tutti pettinati all’indietro in una nuvola mefitica di acqua di colonia. Lei si fece trovare impreparata, con i suoi vecchi jeans e un maglione sformato di lana verde, che portava sempre in casa quando voleva dimenticarsi di sé: il giorno era passato senza che se ne accorgesse, strascicato nella spossatezza appena annoiata dei giorni che seguono i grossi cambiamenti. Un po’ la imbarazzava la cura che doveva aver messo lui nel prepararsi, nel contrasto con la sua noncuranza.
Camminarono; Lea sentiva che avrebbe dovuto dire qualcosa, solo per dissipare quel silenzio che sapeva carico di attese, nel rumore dei passi che incespicavano giù per la strada in discesa. Non disse niente invece; proprio non sapeva cosa inventarsi. La cena, in un piccolo ristorante etiope, fu lunghissima e penosa, per lei; lui sembrava gongolare, mangiò a quattro palmenti. Mangiava con le mani e Lea sentiva che aveva sbagliato ad accettare l’invito, aveva sbagliato a sentirsi tanto sola, a cercare un appiglio invece di sprofondare nella sua solitudine fino in fondo, come sapeva fare; e le montava un ribrezzo rabbioso per le mani di lui affondate nelle salse piccanti, per il sorriso premuroso che sottintendeva che, anche lei, doveva pur sforzarsi di mangiare.
Disse che non aveva fame; si ostinò a simulare un sorriso mentre lui si ingozzava e ogni tanto le lanciava sguardi che lei provava a schivare, ma senza convinzione, perché si sentiva in dovere di essere smisuratamente gentile. Solo una gentilezza spropositata sarebbe bastata a ripagarlo di tutta quella fiducia mal riposta. Gli argomenti di conversazione erano sparuti massi erratici: Lea si aggrappava a qualsiasi piccola idea, qualsiasi bizzarria.
Come oscure leggi della conversazione prescrivono che succeda quando ci si annoia ma non ci si rassegna a tacere, finirono a parlare di sostanze psicotrope e droghe. Lea non aveva molto da dire: l’educazione le imponeva di tacere l’unico suo desiderio, di sprofondare davvero in uno stato di alterazione, che funzionasse da analgesico, che rendesse esilarante quella lenta tortura. Le venne in mente di aver letto da qualche parte che la noce moscata – una spezia così comune, che da bambina l’affascinava per via della grattugia in miniatura nel suo vasetto, come fosse un prestito dalla casa delle bambole – poteva indurre allucinazioni: le sembrò che dirlo le desse un’aria vissuta, vagamente perversa, interessante. Lui fu felice di sentirla parlare, e Lea sapeva che era probabilmente un suo modo per ammantare di poesia un incontro che sperava nella notte si sarebbe trasformato in qualcosa di vagamente somigliante al sesso, se non proprio – nel peggiore dei casi – all’amore. Sentiva incombere il peso della solitudine di lui, lei che alla sua era ormai legata da una lunga fedeltà priva di cedimenti – non fosse stato per quell’unica crepa che si era aperta la sera prima, quando, disorientata e un po’ brilla, per gentilezza aveva accettato l’invito.
Adesso lui le faceva compassione, e aveva pure pietà di sé, una pietà rabbiosa, quella che la prendeva sempre quando si sapeva in trappola, quando l’assaliva la certezza che poco più tardi, in un momento che sperava lontanissimo, si sarebbe avvilita a respingere un assalto. E più fosse stato tenero, cavalleresco, beneducato, più sarebbe stato triste, per lei, fingere di non capire, voltare la testa quel tanto che bastava, dire che era stanca e doveva andare a dormire, fingere di trattenere uno sbadiglio e poi sorridere per attutire il colpo. E chiudersi il portone alle spalle e salire le scale, ed essere di nuovo sola e vedere il sollievo squarciarsi all’improvviso; sentirsi colpevole, pensare che non sarebbe mai cambiata.
Ora le stava dicendo che questa storia della noce moscata era geniale e che non l’aveva mai sentita. Lea non ricordò dove l’aveva letta, ma ricordò invece un’altra cosa, che avrebbe preferito non pensare di sapere: ma la sua memoria gliela schiaffò in vista a lettere cubitali, e chissà se poi se l’era inventata o davvero era scritta nello stesso articolo, che le pareva si intitolasse Cibi salutari che possono essere pericolosi. Pensò che le era venuta in mente, quell’altra cosa, come una premonizione di quelle che arrivano solo alle persone crudeli, maligne. Pensò che fosse un segno della sua cattiva coscienza; pensò di averla pensata solo perché, nel momento in cui nominava le noci moscate, aveva desiderato fare del male a quel ragazzone che l’ascoltava con aria rapita. Così si vergognò e decise di non dire più niente.
Non disse che le noci moscate, nelle quantità in cui potevano provocare allucinazioni, potevano essere anche letali, almeno secondo quell’oscuro articolo letto chissà dove. Non disse proprio nulla: non disse nemmeno che era stanca, che doveva andare a dormire, che era un periodo difficile. Per non essere costretta a parlare evitò persino di scostare il viso con la sua consueta manovra, sotto il portone; si fece baciare e schiacciare contro il muro da quel grosso corpo ansante – non disse, non fece proprio nulla.
Si lasciò portare su per le scale come una sposa sfinita, poi buttare sul letto, e mentre lui la spogliava con le mani che tremavano, sudavano, tiravano e strappavano i vestiti, pensò che per fortuna sarebbe stata una cosa veloce, che presto avrebbe dormito e scordato tutto, gli occhi strabuzzati troppo vicini ai suoi e il respiro rovente, la sfrontatezza di lui nel mostrare tutta quell’agitazione, quell’eccitazione che le ripugnava. Pensò che per fortuna era buio e che non vedeva niente, non sentiva quasi niente mentre le mani la frugavano e aveva l’impressione che le lasciassero lunghe tracce, quasi bave di lumaca, ora che addosso non aveva più niente, ora che era tutta esposta. Lui per fortuna rimaneva vestito, si era solo sbottonato i pantaloni e in men che non si dica le fu addosso, annaspando, grugnendo. Ebbe l’insperato privilegio di non doversi nemmeno muovere prima che lui le affondasse il naso nella scapola, piombando giù con la testa come un falco che scende in picchiata e dicendole qualcosa che lei non voleva ascoltare.
Fu facile mandarlo via, facile anche addormentarsi, fare sogni molto scuri da cui si svegliò tutta pesta. Era una mattina fresca e chiara, ma richiuse la finestra quando vide che lui, dall’altra parte della via, aveva aperto la sua. Non voleva più vederlo, eppure provava uno strano sollievo: la magia delle noci moscate non aveva funzionato, nonostante tutto era vivo e vegeto. Si disse che ormai era salva anche lei, che per espiare la sua colpa una notte come quella poteva bastare.
Lui, però, non era dello stesso avviso. Iniziò a farle la corte con la stessa irritante disinvoltura con cui si era presentato, la sera della cena, azzimato per un vero appuntamento. Lea fingeva di non essere in casa; ma lui conosceva il codice del portone, e come se la ritrosia di lei fosse un passo di danza le lasciava sulla porta piccoli regali, fiori e candele e altre sciocchezze, non conoscendo i suoi gusti, non conoscendo in realtà proprio niente di lei. Le lasciava lunghe lettere, che lei non apriva, e rimanevano sul pianerottolo insieme a tutto il resto; davanti alla porta di lei, lassù al sesto piano, si era creato, nell’accumularsi degli omaggi, un piccolo tabernacolo. La foresta degli ex voto l’angosciava, ma non osava toccare niente; non buttò via nemmeno i fiori che, in capo a una settimana, erano appassiti e impestavano l’aria di profumo cimiteriale. Lea vedeva in ognuno di quegli omaggi un piccolo segno di grazia: la storia delle noci moscate, le dicevano i doni che ignorava, non aveva avuto le conseguenze nefaste che ora apertamente si rimproverava di aver desiderato. Era ancora salva, la vita continuava nonostante la sua crudeltà, si ripeteva ogni mattina, appiattita contro lo spioncino, cercando di respirare piano per non farsi sentire. Lo guardava deporre il suo regalo sulla pila degli altri, lo sentiva bussare a lungo alla porta, e una volta persino lo vide prendere il telefono, come per chiamare qualcuno, come per chiedere aiuto; ma poi per miracolo non chiamò nessuno, si rinfilò il telefono in tasca, e se ne andò.
Non tornò. Lea, per sicurezza, non era più uscita di casa. Non aveva niente da mangiare, esaurite le scorte della sua prima spesa; razionava l’ultimo etto di pasta come una prigioniera. Leggeva l’unico libro che si era portata dall’Italia, ormai ne avrebbe saputi recitare dei passaggi a memoria. Era Pierre e Jean, di Maupassant, comprato davanti alla stazione di Torino mentre aspettava la coincidenza con il TGV. Teneva le tende chiuse, il telefono rigorosamente staccato, respirava a piccoli sorsi l’aria viziata. La felce iniziava a soffrire, le foglie parevano grigie. Di lì a due giorni sarebbe dovuta uscire per forza; il suo contratto era valido dal 15 del mese. Non le importava più di niente, però. Era talmente stanca che non riusciva nemmeno a dormire. Aveva dei momenti di incoscienza in cui scivolava con dolcezza, ma da cui si riscuoteva terrorizzata. Il mondo forse l’aveva già dimenticata; d’altra parte non conosceva nessuno, e nessuno la conosceva.
Cominciò a farsi delle domande. Si chiedeva come mai lui non avesse chiamato aiuto, come mai non avesse sfondato la porta. Non si chiese perché non fosse tornato: forse era quella la domanda che più la tormentava, o forse no, ma evitò comunque di porsela, per non rischiare di dover capire. Capì invece altre cose. I segni sui muri, per esempio; non erano cicatrici lasciate da vecchi poster, non erano l’eredità di un banale trasloco. Erano minuscole iscrizioni a matita, quasi tracciate da un carcerato. Erano i segni dei giorni come li conta chi è recluso. Ricordò allora il telefono che suonava, al suo arrivo; ricordò il sorriso zincato della portinaia, il prezzo irrisorio dell’appartamento, il portachiavi a forma di gattino, che poi non aveva più sostituito con nessun altro. Ricordò l’inserzione che le era capitata sott’occhio per caso, nel salottino dell’ostello, e le era sembrata stranamente infantile, scritta con troppa frettolosa semplicità; ricordò la mano che si staccava dall’elastico delle sue calze e componeva il codice del portone, senza che lei avesse detto niente. Iniziò a immaginarsi Nathalie, a vederla rinchiusa lì dentro, sull’orlo della follia. La vedeva china sulla piastra dei fornelli spenti, in attesa che salisse il caffè che non poteva salire; la vedeva scomparire in bagno, avvicinarsi alla finestra, aprire la tenda, spalancare i vetri e lasciar entrare la sera fresca, ormai con l’incrollabile, indefinibile certezza che, prima di lei, avesse vissuto da prigioniera in quella casa.
Si trovò in strada in uno stato di stupore quasi catatonico. Non avrebbe saputo dire nemmeno lei quale leva avesse azionato quell’improvviso orrore della sua cella, né dove avesse trovato la forza di uscire, così com’era, sfinita e scarmigliata, di cacciare in un sacco quelle putrefatte offerte votive, di buttare tutto nel locale poubelle. Cercò di non guardare dentro la guardiola, dove comunque la luce le pareva spenta; la strada era piena di vento, le bruciava la pelle del viso inaridita dalla reclusione. I pantaloni, il maglione si gonfiarono a una folata più violenta; sorrise. La finestra con le tende optical era chiusa; non gliene importò niente. Camminò giù per la strada in discesa, arrivò lontano, dove non era mai stata, oltre il fiume che correva fra gli argini grigi e severi. Scendeva la sera sui platani, le coppie camminavano per mano, Lea finalmente era di nuovo sola.
C’era un piccolo caffè anche a quell’angolo – come a ogni angolo di Parigi, pensò. Entrò e chiese un kir royal e un pacco di Gauloises senza filtro.