Overlove è il romanzo di esordio di Alessandra Minervini, uscito il 3 novembre per LiberAria.
Un romanzo che racconta l’amore partendo dalla sua fine: cosa siamo disposti a fare per amore? Tutto, anche lasciarci.
Carmine è un cantautore indipendente, ossessionato dal controllo del peso. È sposato, ha una figlia piccola, ha il dono di prevedere le perturbazioni climatiche. Anna è più grande di dieci anni, è stata molto ricca, adesso lavora in quel che resta della lussuosa boutique di famiglia fondata dal padre. I due si prendono e si lasciano diverse volte, ma dopo anni di clandestinità, Anna decide di mettere un punto: pur essendo ancora innamorata, lascia Carmine. Carmine si getta nel lavoro, tenta la carriera nazional popolare a arriva il successo. Anna, invece, rimasta sola con gli enormi debiti, intraprende un viaggio nella sua Puglia che, pian piano, diventa fonte di energia vitale. Intorno a loro, una sgangherata umanità composta da anaffettivi cronici, artisti egocentrici, goffi ipocondriaci, giovani ricchi dell’Est Europa.
Di seguito presentiamo il secondo capitolo di Overlove.
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Anna lo aveva lasciato subito dopo il concerto.
Quello che accade quando due persone non stanno più insieme è nulla. L’impressione è che non sia cambiato alcunché.
Tranne tre cose: ci si affeziona sempre meno a tutto. Primo.
Si preferisce la brevità in ogni suo aspetto, anche i capelli corti a quelli lunghi. Secondo.
Non si sta più insieme. Terzo.
Questo elemento – il terzo – è senza dubbio quello a cui ci si abitua meno.
Da quando si erano incontrati la prima volta, cercandosi fino a stare male e scambiandosi false promesse, erano passati troppi mesi di mancanza e così, senza conoscere il momento esatto, tra loro era piombato il silenzio. Un silenzio consumato da distanze perbene. In quel tempo interrotto, lui dentro di lei si era sedimentato come una frittata disposta da poco su un piatto rivestito di carta antiolio.
Quando erano lontani, come succedeva per la maggior parte dei giorni, ad Anna per la nostalgia fiorivano addosso delle piume smodate, viola con sottili striature verdi. Il peso delle piume era imprevisto come un temporale e, dopo un po’, a seconda della distanza che li separava, le piume diventavano insopportabili. Cicatrici ossidate. Con questo peso sulle spalle, novella dea della mancanza, Anna aveva preso la loro storia e l’aveva schiacciata come si fa sulle pareti con gli insetti minuscoli, quelli che si temono anche se non possono nuocere. Non aveva cercato una motivazione più convincente di un’altra. In fondo, per lasciarlo, non esisteva davvero un motivo migliore o uno peggiore. Un momento perfetto invece sì. Anna aveva detto basta proprio nel momento in cui tutte le cose della sua vita – pur facendole schifo – sembravano contare più di lei e Carmine messi insieme. Se si fa schifo – ripeteva a se stessa – bisogna stare da soli.
La prima volta di lei coincide con il battesimo di lui. Carmine, un ragazzino non le era mai sembrato, nonostante fra loro passassero dieci anni. I folti capelli avvolti nel gel, le spalle ampie, il mento sodo, le guance dritte e uno sguardo che era un misto di fiscalità e corruzione; sulla fronte di lui, troppo alta, si formava spesso una piega della pelle, un’onda anomala per la quale Anna aveva perso la testa.
Carmine aveva una cosa, una caratteristica: in assenza, attiva o passiva, vinceva sempre. Non seguiva una certa strategia eppure creava dipendenza. Per esempio non taceva e basta, professava silenzi così lunghi da diventare offensivi. Dopo diversi anni – tre – e alcuni mesi – cinque – Anna aveva capito che essere innamorati non basta per desiderare qualcuno. Voleva bene a Carmine. Voleva bene persino a sua moglie e a sua figlia, pur non avendole mai viste. Quella a cui non voleva più bene era se stessa.
Per la maggior parte dei loro incontri Anna aveva adoperato un guardaroba che transitava tra lei, gli attaccapanni degli alberghi, le spalliere dei divani, le lavanderie, le piccole valigie e il corpo di lui. Questa trascuratezza era dovuta al suo stile di vita: aerei, macchine private, taxi (una volta qualcuno le chiese: «Che macchina hai?», lei aveva riposto: «Il taxi»).
Da un po’ di tempo però le cose erano cambiate. Era stata costretta a sostituire i debiti agli agi e la sua prima reazione, come quasi sempre fanno tutti coloro che sono pieni di debiti, fu di nasconderli, fingendo di non averne. Per questo, la sciatteria era stata subito rimpiazzata da una pacchiana ostentazione che l’aveva convinta, il giorno del concerto, a scegliere il famoso vestito blu. Quello realizzato da suo padre, quindici anni prima. Le piaceva molto, anche se non l’aveva mai indossato. Quel colore e il ricamo a mano sul seno. Una spirale blu. Non il blu degli inglesi o dei preti. Nemmeno il blu del mare o del cielo. Un blu che richiamava la freschezza dell’adolescenza, una tonalità di colore ammansita per essere stata lasciata troppe ore sotto il sole. Quando suo padre terminò il disegno dell’abito, pensò che fosse la cosa più onesta che avesse fatto nella vita. Nunzio disse proprio così alla figlia: «Tu mi fai sentire una brava persona». La voce di suo padre sapeva di gazzosa come se nella bocca avesse avuto bollicine che sputava in ogni parola: «La seta quando è pura non si sgualcisce» aveva detto ad Anna, consegnandole il vestito.
La voce è l’ultima cosa che se ne va quando una persona sparisce, non si dimentica. Le parole diventano una lingua perduta ma le storie che ha raccontato continuano a esistere, mettendo alle strette chi rimane.
La pelle di Anna non si era smagliata, il suo corpo non aveva accumulato chili di troppo, non un filo di cellulite sulle cosce, nemmeno quella standard. In viso, non una grinza. Dentro un vestito nuovo o vecchio non faceva differenza. Sulle gambe screpolate per via del lenzuolo, i jeans universitari le calzavano ancora alla perfezione e questo le dava una sensazione di perdita di controllo sul tempo, sulla femminilità.
Quell’abito, eccessivamente gonfio sui lati, la faceva sentire una principessa inciampata.