Il toro e la bottiglia (2005, estate)
Per un periodo, al liceo, gli piacque l’idea delle corride. A me no, a me hanno sempre fatto senso, ma per Vincenzo erano l’anima di sangue della Spagna, e la Spagna lo appassionava. Quando andammo a Siviglia non lo propose neppure, gli venne in mente la Maestranza che già eravamo di ritorno, ma a diciott’anni si arrampicava in rischiose metafore le cui parti erano il toro, il torero, le sue ragazze e lui. Sugli spalti nessuno. Diceva di amare in modo esagerato, e di gestire la passione come il matador col toro nell’arena, che provoca e rabbonisce fino allo sfinimento.
Vero. Era un romantico insicuro, bisognoso di prove eclatanti e tauromachiche aspettative, tipo: questa è la volta della vita; è la ragazza più bella della scuola; è più talentuosa di me. Non lo diceva mai per non sembrare troppo coinvolto, ma so che pensava spesso al futuro. A una relazione stabile, ai figli, al matrimonio, a se stesso in canottiera, bandana e mutande che – più muscoloso di quanto non fosse – teneva sulle spalle una bella ragazza, svestita pure lei, intenta a riverniciare una stanza vuota. Il più delle volte, quella ragazza che gli stava sulle spalle somigliava a Paola Molinari, una bionda del collettivo Mi spiace non mi lego a questa schiera, rimarrò pecora nera di cui entrambi facevamo parte. A che servisse il collettivo non me lo ricordo, ma delle esperienze passate non si dice mai che siano state inutili.
Nove parole su Paola Molinari: Vincenzo scriveva su di lei racconti porno straordinariamente romantici. Il primo lo trovai su quello che pensavo fosse un Quaderno di Dialogo (computisterie, cioè, che usavamo per discutere durante la lezione, praticamente una chat cartacea) e che invece era un taccuino suo. Stetti zitto, perché di fatto avevo invaso la sua privacy, ma lo lessi. Gli altri li abbozzava in una certa zona della Moleskine che ci eravamo regalati ai compleanni, per poi piegarli in fogliettini e nasconderli nella piccola tasca sul retro. Prevedevano un innamoramento, provocazioni da parte di lei, un netto rifiuto da parte di lui, un’insistenza di lei, un cedimento di lui, la rivelazione della di lei (improbabile) verginità e dopo la prima volta una lunga e consolidata relazione monogama, animata da amore profondo, premiata con il concepimento di almeno due figli nati prima della fine del liceo e una serie incalcolabile di scambi e quartetti e orge-premio di qualsiasi natura e per tutti i gusti, unica vera nota pornografica di quelli che Vincenzo chiamava, dopo avermi scoperto a leggerli, i miei pamphlet erotici.
Paola era fidanzata col tesoriere del collettivo, che a pensarci adesso non ho idea di cosa tesorasse, mi sa che era una carica inventata. Si chiamava Edoardo Stirparo, detto Moscacieca perché aveva perso l’occhio destro durante una rissa in un campo rom, incassando una badilata in pieno volto. L’occhio di vetro non si notava proprio, tanto che questa del badile ci sembrava una leggenda, ma Moscacieca ci aveva comunque guadagnato un certo charme e, soprattutto, Paola Molinari. L’interesse di Vincenzo, in ogni caso, non defluiva a vuoto, perché lei nutriva nei suoi confronti una cosa strana, che adesso chiamerei fascinazione ma prima, quando avevo un forte senso del limite, definivo stima – parlavamo tanto di barriere da infrangere (tra classi, tra categorie, in questo caso tra popolari e impopolari) che ormai le ritenevo insormontabili. Non credo volesse andarci a letto perché sia io che lui a sedici anni non brillavamo per sensualità, ma un paio di volte si erano scambiati libri con un fiore dentro. Libri di spagnoli o sulla Spagna per lo più: Marías, Montalbán, García Lorca, Millás, Gimenéz Bartlett e Fiesta di Hemingway, il suo preferito, da cui nasceva – credo – questa follia adolescenziale per le corride, che con me magnificava e che con lei si sperticava a deprecare.
Paola era bella, bionda, ambrata di pelle e provocante in modo involontario: sotto i Levis sformati e i maglioni di pelo tibetano, il fisico racchiuso tra stringate viola e pashmine abbinate era tonico, curvilineo, perfetto. Era un’idealista e un’alternativa. Si definiva così da sola, e così la definivano pure i meno alternativi, come si usava fare, con una nota di derisione. Corteggiava l’ecoterrorismo prima ancora che Vincenzo riuscisse a formulare un pensiero libero sul suo rapporto con la Chiesa, o che ottenesse uno strappo di mezz’ora al coprifuoco dei quattordici anni. Dopo il ginnasio, approfittando di una crisi con Moscacieca, se n’era scappata in Messico per un’intera estate ed era tornata con l’anello al naso e il tatuaggio di un acchiappasogni intorno al capezzolo sinistro. Vincenzo, in quella fase, comprendeva già che la smania degli altri non si placa elargendo amore o peggio il proprio tempo. Temeva e biasimava l’isteria disertrice di Paola, ma continuò a volerle bene per il fatto che si capivano al volo per le cose di libri e di politica e di Spagna, e ogni tanto nella classe si scambiavano occhiate sorridenti.
La cosa più importante che lo legava a Paola – anche dopo quel fatto imbarazzante, quando si era vergognato di presentarle una cretina con cui usciva e per strada non l’aveva salutata, ferendola – era un fatto che risaliva al 2005, durante una festa estiva, organizzata con compagnie miste. Ricordo che si dormiva a casa di un compagno ricco, credo Gigi Maccarone, che era figlio di gente che non si capiva bene che lavoro facesse ma doveva fruttare molto perché avevano tre piani in pieno centro e un televisore al plasma incorniciato sul camino elettrico e una specie di cascata ornamentale dietro il passamano della scala a chiocciola – e che c’era anche Paola. In genere si giocava a un gioco della bottiglia un po’ più spinto, con innovazioni interessanti e reali penitenze. Tipo: a me una volta toccò ingoiare un mazzetto di capelli unti di Dino Malagò, che nel turno precedente se li era fatti strappare uno a uno pur di evitare un bacio con sua cugina. I benefit erano dello stesso tenore. A Vincenzo, infatti, quella volta famosa capitò la camera buia, che era una cosa presa in prestito da qualche film americano. Di norma dovevi stenderti in questa stanza da letto e aspettare, bendato, che quella a cui toccava dopo di te entrasse senza rivelarsi e ti facesse, muta, tutto quello che gli altri, di là, le avevano ordinato. La combinazione andava in porto raramente, ma noi maschi respingevamo le statistiche e giocavamo con fiducia, pregando che prima o poi funzionasse. Con Teapot, come ho già detto, funzionò.
Ci sperava anche lui, ovviamente, ma a differenza nostra palesava il panico con faccette e tremori, impreparato a quello che il desiderio comportava. Ognuno di noi era goffo, spaventato, privo di esperienza e fondamentalmente più romantico che fisico, ma Vincenzo credeva – come per tutte le cose, del resto – di essere il solo, il più diverso tra le masse di uguali, un insicuro solitario. Quando il collo della bottiglia si fermò verso le sue gambe incrociate mi guardò a bocca aperta, con la fronte solcata dal terrore. Ricevette un tiepido applauso d’incoraggiamento, qualche fischio, poi Maccarone chiese a me di accompagnarlo in camera da letto e bendarlo con un lungo lembo di stoffa spessa, che una ragazza – chi? – aveva pronto e mi porse. Mentre lo guidavo nella stanza e lo bendavo, Vincenzo mi pregò di impedire abbinamenti sgradevoli e di rivelargli, a cose fatte, chi fosse la ragazza misteriosa. Gli ricordai che non potevo, e che non era detto che lei accettasse. Poi gli augurai buona fortuna e me ne andai.
Che dire, del seguito. La ragazza accettò, entrò senza scarpe e gli baciò le labbra. Poi gli slacciò la cinta, da copione, e gli fece qualcosa in più di quello che noi di là avevamo stabilito. La prova che fosse tutto vero la ebbi negli anni a venire, quando si rafforzò in lui una specie di ossessione, una parafilia, per le cose che erano accadute in quella camera da letto. Me ne parlò, prodigo di dettagli, come l’opera bellissima, ne era certo, delle labbra e delle mani e dei seni di Paola Molinari.
Per sempre, o meglio per tutto il tempo lungo in cui fummo amici, mi chiese una conferma. Dimmi solo sì o no, diceva, e lo capisco pure, poverino. La sua prima esperienza sessuale, splendida e insperatamente soddisfacente, è stata una specie di sogno silenzioso consumato con una sconosciuta. Ogni volta che ci pensa – e sono certo che succede ancora – non ha immagini, né parole di riferimento. Tranne due.
Verso la fine, quando anche lei si era fatta toccare e gli gemeva nell’orecchio senza poter dire frasi di senso compiuto, lui le aveva chiesto una cosa che in seguito avrebbe chiesto anche a Silvia (e che, in circostanze diverse e con diverse parole, chiedeva anche a me), e cioè se fosse bravo. Se almeno, buio per buio, le piacesse. E lei, con una voce rauca e contraffatta dalla circostanza, mentre lui continuava a toccarla, si issò per un momento e lo guardò, ne era sicuro, nella direzione degli occhi. Poi prese fiato e disse:
«Vincé».
Solo questo. E al suo nome mozzato, arrotolato nel piacere, che era insieme sì e ma certo e invocazione e orgasmo e catalessi, Teapot non resisté. Finì, strattonando le coperte, e si accasciò, bendato e innamorato di nessuno. Poi aspettò che lei si rivestisse, e mentre ascoltava il tintinnio della sua fibbia la sentì stiracchiare una seconda parola. Una parola da corrida, appunto.
«Olè.»
La ragazza, che lui crede ancora Paola Molinari, chiuse la porta e tornò tra noi. E il sussurro alterato di quelle due parole, dette alla maniera di Linda Blair durante un gioco squallido, suonò per sempre, nella testa di Vincenzo, come una dichiarazione.
Qualche giorno dopo la camera buia, Paola e Moscacieca si lasciarono per un breve periodo. E quando Vincenzo, con fare complice, le si avvicinò e le chiese come stesse, lei preferì rispondergli con un bigliettino passato in scivolata durante la quinta ora. Sul bigliettino c’era disegnato a penna rossa un toro con l’anello e due grosse corna. Che secondo me significava qualcosa come Sono cornuta. Lui me lo mostrò come una prova conclamata, in preda a una gioia che gli spaccava il cuore. Io non capivo. Il toro, mi diceva, e Olè. «Olè, mi ha detto, Olè», ripeteva agitando le corna. E siccome sono un fermo sostenitore del fatto, come spesso ho letto, che la vita è sempre come te la vuoi raccontare, non gli dissi mai se era lei o meno, perché tanto non faceva differenza.
Vincenzo io ti ammazzerò (2012, estate)
Soltanto una volta mi sono trovato da solo con Ariane, prima. Fu quattro anni fa, ad agosto, quando andai a prenderla per conto di Teapot all’aeroporto di Lamezia Terme. Ricordo di essere arrivato davanti a lei carico di inibizioni, scostante e praticamente ancora in pigiama, cioè in pantaloncini e canottiera. Non mi ero nemmeno lavato, credo, perché la sveglia di Vincenzo – Vacci tu all’aeroporto, sto uscendo a fare una cosa – risaliva a meno di un’ora prima dell’arrivo della sua ospite, e io ero un tipo puntuale. Lui non lo sapeva, o meglio si affidava senza fidarsi mai fino in fondo, e per essere sicuro che non rimanessi a letto aveva alzato le serrande e spalancato le finestre, cosa che odio – anche in estate. Quando uscì sbattendo la porta mi svegliai per sempre, guardai l’orologio e constatai che avevo a malapena il tempo di prendere le chiavi della macchina. Solo al momento di parcheggiare, una volta arrivato, mi accorsi di aver guidato per quaranta minuti con le infradito. E non credo sia una cosa tollerata dal codice della strada.
Tre parole su Ariane: mi faceva paura. Non avevo ancora digerito il suo stile di vita, e nonostante mi atteggiassi ad artista – cosa che non sono mai stato, nemmeno quando, come Silvia ebbe a dire del me di quegli anni, facevo il cicisbeo di Vincenzo – provavo angoscia nel pensare a Teapot con una così, una che a mio avviso campava benissimo anche senza il sito porno. Me la immaginavo al mattino, davanti allo specchio, che si truccava di un tono drammatico, ripetendosi Meglio nuda che impiegata. A Vincenzo piacevano molto le ragazze così.
Ariane era una vetta di insuperabile stranezza, ma negli anni mi aveva costretto a dialogare con creature davvero decadenti, sempre fuori sincrono con la concretezza delle nostre aspirazioni. Quando glielo facevo notare – dicendogli, magari, Questa tua nuova ragazza è una schizofrenica –, Vincenzo Teapot mi rispondeva, guardando da un’altra parte, che gli amori migliori sono quelli che connettono il cielo al fango. Li chiamava amori-grondaia, e all’epoca mi sembrava una metafora affascinante. Questi amori erano soggetti a pericolose tempeste, delle cui conseguenze mi occupavo io. Nel senso che Vincenzo viveva l’interconnessione fra il cielo e il fango, e a me toccava arrampicarmi, sturare la grondaia dai tappi di foglie e a lavoro finito ripetergli Ehi, è stato solo un po’ di vento, l’acqua scorrerà di nuovo.
Ariane era partita così, come una fascinazione d’artista, e impersonava il fango nel gioco verticale dell’amore secondo Teapot. Quando, tornati dalla Spagna, gli dissi che l’idea non mi piaceva (Questa tua nuova ragazza è una porno-schizofrenica) lui mi accusò di essere conformista, e io accusai lui di selezionarle in base a quanto fossero strane, e lui accusò me di essere un misogino, e io gli risposi che se davvero odiavo le donne se non l’intera umanità era per colpa sua e degli esemplari che infliggeva a entrambi, e cioè gente disperata travestita da spavalda, la peggior specie in assoluto. Era un discorso frequente, e quando capitava di iniziarlo Teapot si faceva serio e mi diceva che con quegli esemplari lì era buon costume comportarsi bene, perché l’aria di cui sono pieni i palloni gonfiati è la stessa che sta dentro ai sacchetti antipanico.
Su Ariane non disse niente di così patetico. Provava a convincermi coi paragoni, garantendomi che fosse una ragazza forte e più serena di Silvia, che pure non lavorava coi siti porno. Io, come ho già detto, non gli credevo. Non gli credetti per oltre tre mesi, e per la precisione da quando la conoscemmo, a Siviglia in primavera, fino al momento di quell’agosto calabrese in cui la vidi che mi sorrideva dal centro dell’aeroporto, sola nella moltitudine di vacanzieri sconosciuti. Lì capii due cose, una sulle convinzioni traballanti e una sulla gente che sia io che Teapot ritenevamo inferiore o più infelice di noi: la prima, che la bellezza delle donne cancella il peso delle cose, inverte le posizioni, sfila la tovaglia sotto il servizio buono e spesso lo distrugge; la seconda era che Ariane, più che fare quello che voleva, voleva quello che faceva, e come lei un sacco di gente speciale. Non so se mi sono spiegato, ci riprovo: fare quello che vuoi è una tendenza positiva, ma essere davvero convinto di tutto quello che fai è una vocazione degli illuminati, la felicità realizzata, il modo migliore per godere della libertà. Io, per esempio, che faccio un sacco di cose che non mi rendono felice per niente, che questo Nirvana non l’ho ancora raggiunto, sono uno sprecone del libero arbitrio. Ariane no. Aveva accettato di atterrare a Lamezia Terme con un preavviso minimo e nessuna garanzia sull’evoluzione della vacanza, e dimostrava una contentezza insolita, sia per un turista che per una donna innamorata. Era felice, chi l’avrebbe mai detto.
Una piccola chiosa sulle convinzioni traballanti: poste le riflessioni profonde, l’idea su di lei la cambiai senza pensare. Semplicemente mi accorsi di desiderarla. E questa cosa – percepita da un momento all’altro, e cioè quando notai il lungo vestito accarezzarle il sedere più grande dei seni, e gli occhi marroni, piccoli, socchiusi nello sforzo di riconoscermi, e i piedi grandi fasciati in sandali economici, da mercato cinese – annullò qualsiasi giudizio sulla sua persona. Per il tempo breve che passammo da soli, una parte incosciente di me pensava soltanto: Potresti piacerle all’improvviso e più di Teapot.
Nell’aeroporto c’era odore di caffè e cornetti, in un’atmosfera di mattino ordinario che mi faceva pensare all’inverno. La prima cosa che Ariane mi chiese dopo «Come stai?» non fu Dov’è Vincenzo?, ma «Ci prendiamo un caffè?». Glielo offrii e le dissi qualcosa di banale sull’accoglienza italiana, lei rise cristallina e rispose
«Cominciamo bene».
Aveva due bagagli, cioè un trolley e una sacca, e quando proposi di portarli mi mollò il primo. Era piccolo e largo, sviluppato in orizzontale come una cartella, e per trascinarlo con ordine nelle file di gente dovetti camminarle dietro. Mentre andavamo alla macchina mi accorsi che le guardavo il sedere tanto intensamente che forse una parte di me sperava di essere scoperta. Per il resto mi comportai come si conviene a uno scapolo italiano, aprendole la portiera e domandandole del viaggio con l’intento segreto di risultarle più signore, più presente e più concreto di Teapot, che aveva modi tanto disinvolti da mandare me all’aeroporto al posto suo.
«Perché Vincenzo non c’è?» chiese lei dopo un bel po’ di tempo, mentre seduta composta guardava un po’ me e un po’ oltre me il mare luminoso. Aveva il seno sinistro affacciato sulla cintura di sicurezza. Le risposi una verità che era un po’ una bugia, come tutte le verità che ruotavano intorno a Teapot.
«Sta preparando una sorpresa romantica» dissi.
Ariane sorrise e ripeté Romantica con la sua doppia erre e un tono canzonatorio, perché non mi accorgessi che le faceva piacere. Non feci altre domande e non parlai più di Vincenzo. Un’altra parte di me – la terza, oltre a quella cosciente della vita reale e a quella, sotto copertura, che voleva piacerle – si chiedeva quanto potesse essere eccitante prendere un aereo con la consapevolezza che, appena atterrati, si farà l’amore con qualcuno. Ecco, mi dicevo, Ariane sta vivendo quest’eccitazione e me la conferma alla maniera delle donne, cioè negandola.
Per il resto del tempo mi raccontò aneddoti su posti e gente che avevamo frequentato in primavera. Mentre parlava si spalmava una crema sulle gambe, rannicchiate sul sedile. Di tanto in tanto si ricopriva un fianco rimasto nudo, poi riprendeva ad attingere dal vasetto con due dita dritte e si ungeva le cosce, spalmando con attenzione.
Fu un viaggio breve ma difficile.
Vincenzo Teapot era a casa, ai fornelli, immerso in un vapore sfrigolante che sapeva di pancetta. Abbracciò Ariane con addosso un grembiule a fantasia natalizia e i capelli legati in un codino piccolissimo da un elastico rosa. Fu un saluto abbastanza freddo, il loro, che parlava a me, e mi diceva Siamo solo amici. È tutto sotto controllo. La sorpresa romantica era un’amatriciana straordinaria, che mangiammo insieme a un vino bianco freddo comprato per l’occasione. Fu un pranzo breve da cui non emerse nulla, e la cosa mi dispiacque un po’: li avevo visti baciarsi decine di volte, e altrettante volte avevano fatto un amore rumoroso nella vasca da bagno adiacente alla mia stanza (e probabilmente su un letto matrimoniale in cui giacevo ubriaco), ma nonostante questo mi nascondevano l’evidenza che l’avrebbero fatto ancora, e che per più di due mesi avevano desiderato di farlo. Lo sapevo già, ma non dovevo saperlo. Dal terzo bicchiere in poi Vincenzo camuffò peggio gli sguardi, non tratteneva le mani. Prima che mi proponessero un caffè per depistarmi ulteriormente, mi inventai una pazza voglia di mare e li lasciai soli.
Avevamo preso casa io e lui, per la prima volta, in una zona sconosciuta a entrambi e poco nota a Silvia, che lo tempestava ancora di minacce di morte. Pagavamo una miseria perché la casa era un bilocale al terzo piano che affacciava sulla ferrovia, e a ogni ora sentivamo fischiare i treni e tremare i vetri: a lui piaceva, a me no. Ci stavamo già da quattro giorni, e per le prime notti avevamo diviso la matrimoniale. Da quella sera mi sarei spostato sul divano letto vicino al balcone, e la cosa mi dispiaceva con moderazione: il peggio sarebbe stato sentirmi estromesso dalla mia vacanza.
Feci un giro lungo del paese, nei vicoli da Tetris tirava un vento caldo che mi scompigliava. Riconobbi due o tre facce di gente vista in città, per una – conoscenza di Teapot dei tempi di Silvia – accennai un saluto che non fu ricambiato. Comprai un gelato, non mi piacque, finii la crema seduto su uno scoglio con espressione pensosa, poi buttai il cono arancione nei flutti. Tanto era biodegradabile.
Ariane ci aveva portato dei regali. Un paio di berretti rossi e bianchi del Sevilla Football Club, due Cruzcampo e un bottiglione di Sangria comprata al duty free che doveva esserle costata una fortuna. C’era un berretto anche per Marco, che passò a trovarci per un giorno solo con Manuel, un cugino più piccolo che gli faceva da chitarra numero due. Avevano una serata dalle parti di Capo Vaticano, un po’ lontano. Ci proposero di andare e Ariane ne aveva voglia, ma Teapot rifiutò senza parlarne con noi. Marco, quando si trattava di prendere la macchina, non insisteva mai. Pioveva, e fin quando non si fece troppo tardi restammo chiusi nell’ingresso-cucina ad ascoltarli suonare. Lui era bravo come sempre, e Ariane lo fissava come immagino si fissassero le radio quando non c’era la tv. Ne fui un po’ geloso, e credo anche Vincenzo. A metà repertorio, ad Ariane prese la nostalgia della musica spagnola e chiese a Marco se conoscesse qualche pezzo. Lui tentò Si Tu No Vuelves di Miguel Bosé perché si ricordava le parole di quella soltanto, ma a metà si interruppe e promise di studiare di più.
Da quel giorno la piccola casa si colorò dei toni caldi della musica spagnola, quella vera, che da noi non passa. Familiarizzai con Joaquín Sabina, Javier Krahe, Leiva, Joan Manuel Serrat e un certo Enrique Bunbury che a Teapot non piaceva. Gli piaceva invece una ragazza che cantava in inglese, Russian Red, e la sua canzone Fuerteventura, che volle mettere ossessivamente fino a che tutti non la sopportammo più.
Scendevamo in spiaggia molto poco. Teapot faceva più bella figura ma nuotava peggio. Io ero temprato da una certa familiarità con la pallanuoto ma avevo preso una dozzina di chili sparsi male. Vincenzo prendeva e bruciava, prendeva e bruciava, era diverso ogni quattro mesi. In costume non facevamo né stupore né spavento: allenati meno di Leopardi, già pronti per una vecchiaia elegante, col filo di pancia e le spalle viziate dalla scrivania. Belli però, soprattutto lui. In piedi contro il mare sorrideva sempre, scuro e spigoloso per natura, col costume scosciato coordinato all’elastico per capelli. Ariane, a differenza nostra, era tutta vita. In costume rivelò colori inaspettati e molti nei. Mentre la guardavo fare la ruota nella battigia o tirare Vincenzo per un piede lungo una pista di sabbia mi chiedevo se l’Ariane privata fosse l’amica, non nuda, che avevo davanti o la cam girl col nome falso che abitava una casa pagata da un sito porno. Chi la conosceva meglio? Io, che trascorrevo con lei le vacanze, o migliaia di utenti anonimi che l’avevano vista nella doccia? Ma soprattutto, come faceva Vincenzo a sopportarlo?
Quando pensavo alla risposta non riuscivo a distinguere l’invidia dal biasimo.
La solitudine del primo giorno non si ripeté. Col fatto che loro due dividevano la notte, riuscimmo a passare le giornate tutti e tre insieme. E sì, quella fu un’estate decente. Teapot non scrisse mai, o almeno non sotto il mio sguardo, ma immagino stesse facendo scorta di suggestioni, tipo Ariane che si smalta i piedi accucciata sul letto, Ariane affacciata al balcone che cerca le Eolie avvolta seminuda in una stola estiva, Ariane che ci chiede una cosa su Berlusconi e noi non la sappiamo, Ariane che scavalca una transenna di cantiere con il vestito annodato su un fianco perché non si strappi e ci chiede di seguirla, Ariane che sulla coscia scoperta – in macchina non me n’ero accorto – ha tre nei che formano un triangolo, Ariane che in questi casi non incrocia mai i miei occhi, perché sa che la sto guardando come la guarda Teapot e che forse sono io, l’amico, il non-scrittore, a fare scorta di suggestioni.
Un giorno andammo a pescare, e pescammo male. Vincenzo in particolare era negato, non si impegnava proprio, sembrava più interessato a portare la barca che a gestire la canna, e dopo un po’ la posò e fece casino intorno a noi due. Ariane rideva, apriva la curva del collo per farselo baciare, diceva cose in spagnolo che lui capiva ma io no.
«Vincè» gli dissi, «se parlate non pesco niente.»
Lui fece silenzio, e io non pescai un accidente.
Di ritorno da quella spedizione infruttuosa trovammo Silvia ad attenderci davanti al portone di casa. Era lievemente ingrassata dall’ultima volta, ma ancora molto carina. Sorrideva diplomatica, a modo suo, e aveva in mano una bottiglia tipo vodka con la targhetta strappata. Mi convinsi che fosse acido, come si usava adesso, ma non dissi niente. Continuai a camminare disinvolto dietro Vicenzo, facendo scudo ad Ariane, e quando Silvia lanciò la bottiglia addosso a Teapot mi voltai di spalle schermandola per intero. Un coccio scheggiò Vincenzo sull’avambraccio, ma di poco.
«Un pensierino» disse Silvia. Poi andò via di corsa. Una lancia color crema l’aspettava con lo sportello aperto.
Così ci toccò spiegare ad Ariane chi fosse Silvia, e perché ce l’avesse con Teapot. Fu un racconto difficile, offensivo, rabbioso. Ad Ariane non piacquero né il tono né gli epiteti, e dopo un po’ si dedicò alla ferita di Vincenzo immersa in un turbamento silenzioso. Fu così per un’oretta, fino a quando sentimmo provenire dalla strada un piccolo coro, di uomini e donne, che urlava il nome di Teapot e il mio, e poi partire ad altissimo volume «Vincenzo io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere, oh Vincenzo io ti ammazzerò perché, perché non sai decidere». La misero a ripetizione sei o sette volte, poi andarono via.
Eravamo abituati alle mattanze di Silvia, e il giorno dopo già non ci pensavamo più. Trascorremmo la giornata, una delle ultime, a fare gite veloci in un paio di paesi vicini, e pranzammo in un ristorante di pesce che era fuori dal nostro budget, fingendo con disinvoltura che non ci importasse dei soldi. In quelle due ore che trascorremmo seduti a mangiar bene e bere tanto raccogliemmo tutti i discorsi seri che, per giorni, avevamo rimandato in favore del divertimento. Ariane ci chiese che programmi avessimo, e Vincenzo per sommi capi lo raccontò. Disse del suo lavoro in libreria e del mio tirocinio nello studio grafico, e della stanza doppia e micragnosa che avevamo fittato per abbattere i costi. Il discorso proseguì sui soldi, e sull’assenza di modi legali per procurarsene prima dei trent’anni, e Ariane a un certo punto rise e disse
«Potete sempre fare come me».
Era una battuta, il primo riferimento che faceva sull’argomento da quando ce l’aveva spiegato a Siviglia. E non so perché – forse per via che si tenevano per mano, mettendo finalmente da parte l’etichetta cretina che si erano imposti in mia presenza, o forse perché avevo preso a ritenermi suo amico ma non mi sentivo abbastanza coinvolto nella sua esistenza protetta eppure così esposta – ma mi venne in mente di essere sincero, dopo un fondino strategico.
«Ma come fai?» le chiesi.
«A fare cosa?»
«A non vergognarti.»
Vincenzo Teapot mi guardò, lei mi guardava già. Non mi sentii nel torto, perché lo pensavo davvero. Quindi continuai.
«Dico, sei libera di fare qualsiasi altra cosa. Perché fai quello?»
«Per come la vedo io» mi rispose calma, «essere libera significa che non puoi vergognarti di niente.»
Lo disse in un italiano perfetto, senza abbassare lo sguardo. Sorrideva, non si era offesa. Tempo dopo, riparlandone, Vincenzo mi avrebbe detto come la pensava, e cioè che l’unica prigione è il conformismo. Quel giorno, però, disse una cosa più vaga, che come al solito mi sembrò molto intelligente.
«Sì, se sei libero non puoi scappare. Devi essere libero fino in fondo» disse. E la sua fu, come al solito, l’ultima parola sull’argomento.
Ariane partì la mattina dopo, all’alba. E questa volta fu Vincenzo ad accompagnarla. Io li sentii uscire e mi alzai per salutarla. Lei si avvicinò e mi posò una mano calda sul fianco, proprio sopra l’elastico dei boxer. Poi mi diede due baci lenti, un piccolo abbraccio. La mano si spostò sulla schiena, e mentre mi accarezzava su e giù la sentii sussurrare
«Grazie di tutto».
Poi si staccò e raggiunse Vincenzo che con la testa, perentoriamente, mi indicò la loro stanza.
«Vai nel lettone, vile maschio.»
Si chiusero la porta alle spalle e io tornai nella mia cuccia vicino al balcone. Per un attimo ci avevo pensato, ma dormire dal lato di Ariane mi metteva ansia.
Da allora Vincenzo mi chiese più spesso un parere su di lei, perché sapeva che mi era piaciuta.
«È una ragazza straordinaria» gli dicevo. E lo pensavo sul serio. Mi chiedeva «È bella?», come se fosse opinabile, e rispondevo che lo era, ma non proprio il mio tipo. Mentivo.
Non aspettai molto, dopo la sua partenza. Mi ricordavo il canale dai tempi di Siviglia, ma per mesi non me n’era fregato niente. L’ultima notte di quella bella estate, invece, mi alzai dal letto, presi il laptop e raggiunsi il balcone. L’appartamento di Ariane, che sul sito aveva un nome falso, era come lo ricordavo: bianco, pulito, moderno, troppo bello per lei. Dormiva a pancia in giù, stesa su un divano Chesterfield. La tv, accesa su qualcosa che non era inquadrato, le illuminava a sprazzi intermittenti la pelle nuda, e lo slip nero semitrasparente che stava indossando. Pensai tante cose, in quel momento, ma nessuna aveva a che vedere col sesso. Pensai, per esempio, che era bella come una cosa che si vede da lontano, in effetti, o di nascosto, bella come le cose che devi scoprire e che in fondo non si scoprono mai, ed era questo il suo inganno inconsapevole; pensai che aveva dormito per settimane nella casa che avevo affittato col mio migliore amico, e nessuno – tra i fan che certamente la seguivano – lo immaginava; pensai che aveva dormito sul lato del letto in cui adesso dormivo io, e da lì si era voltata spesso verso Vincenzo, e l’aveva cercato, abbracciato, baciato; pensai Cosa si sarà visto, in questi giorni in cui lei stava qua, davanti alle telecamere? Niente? Avranno oscurato il sito? Pensai questo, insomma, e poco altro, perché ad un certo punto vidi Teapot traballare verso di me, col cellulare all’orecchio e un sorriso scemo. Mi fece l’occhiolino, poi disse Ehi, piccola mentre apriva la porta del balcone.
Sullo schermo, Ariane si era messa in piedi e sorrideva parlando al telefono. Siccome aveva il seno nudo, ed era bellissimo, mi sentii in colpa e chiusi tutto.
Per depistarlo feci partire Vincenzo io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere, oh Vincenzo io ti ammazzerò perché, perché non sai decidere. E lui, il mio migliore amico, si mise a ridere.