Ci sono molti modi di amare e questo è il mio, pensa Giulia spegnendo il motore della Regata in via Bellini.
C’è chi ama con i messaggi nel telefono, con i baci, le viscere e tutti i pezzi del corpo, c’è chi ama con i murales, con le domeniche senza uscire dal letto, con i litigi a voce alta, con le carezze.
Giulia ama su quattro ruote, con le sigarette e i portoni di casa.
È una cosa che ha sempre fatto.
«Chissà se si guarisce prima o poi» dice ad alta voce, per sentire le parole rimbalzare nell’abitacolo, diventare vere e scivolare insieme al tergicristalli.
***
Il primo è stato Mirko. Avevano nove anni, gli pneumatici erano copertoni, il portone di casa era il giardinetto con il campo da basket di cemento duro, le sigarette erano big babol.
Mirko era della terza C e aveva un sorriso rotto: l’incisivo superiore se n’era andato in schegge insieme a un rimbalzo di difesa della palla e non tornava più.
A Giulia piaceva molto con quel pezzo in meno. Era vero come le cose vere, che si rompono e non si aggiustano mai del tutto.
Abitava sopra al campetto di basket di Piazza Mattei, sulla sua finestra al secondo piano erano appiccicati i pianeti ritagliati dal sussidiario dell’anno prima e lei si perdeva spesso a guardare quell’universo lassù. Immaginava di parlare con lui nelle notti stellate, fino a diventare vecchi.
Giulia mangiava big babol panna e fragola e girava ogni pomeriggio intorno al campetto. Con la pioggia e il vento, nell’estate afosa e nel freddo di dicembre, sulla sua bicicletta gialla ripercorreva il perimetro di rete metallica, canticchiando con indifferenza sempre la stessa canzone, Come mai ma chi sarai, finché sua madre non la tirava verso casa, finché il pallone che faceva con la bocca scoppiava tra naso e labbra, finché Mirko non si girava a guardare oltre il canestro.
Ma, a quel punto, Giulia era già andata via.
Appena conquistata la patente, suo padre le aveva regalato una vecchia Regata bozzata e puzzolente di sporco. Giulia ne era molto orgogliosa e ignorava i commenti delle vicine di casa, che orrore questi albanesi parcheggiati qui davanti! Bisogna tenere chiuse pure le finestre, si sa che quelli entrano dalle finestre, spruzzano una sostanza che addormenta e si portano via pure le mutande dai cassetti!, storcevano il naso davanti alle loro belle villette residenziali di periferia.
Giulia scorrazzava leggera su quelle quattro ruote sgonfie, scordandosi sempre di togliere il freno a mano, si lasciava alle spalle una scia felice di bruciato. Il pomeriggio andava a prendere la sua amica Isabella e fumavano sigarette fino a stare male fingendo di studiare latino e greco.
Era la sua migliore amica, come possono esserlo solo le amiche al liceo, con la certezza che non esista niente di più forte al mondo di quell’amicizia, che non potresti mai vivere senza.
Isa le parlava dei suoi amori, dei suoi fuochi. Spalancava gli occhi, «ti racconto una cosa che non devi dire a nessuno…»
«Un segreto?»
«Di più, una cosa che se la dici ti taglio la gola!»
«Certo che tu a Mallory Knox gli fai una pippa!» e ridevano, ridevano da matte.
Raccontava i segreti di quando aveva fatto l’amore con Federico, la sua prima volta, le lenzuola sporche e l’aria frizzante.
«E poi la sua mano è scesa…»
«Scesa dove?»
«Che scema! Dai che mi imbarazzo… Dove vuoi che sia scesa! È scesa lì. Lì, lì, e a me è girato il mondo, non ho capito più niente, mi sono rotolata sull’asciugamano caldo di sole, ho fatto come i gatti, mmmmeeeoowwhh ho fatto, e lui suonava le dita come sul pianoforte, ma il pianoforte ero io e…» raccontava Isa e caricava il racconto muovendo le mani in un crescendo di gesti, come se stesse dirigendo l’orchestra sinfonica.
Giulia immaginava quando sarebbe successo a lei, invidiava quelle storie che correvano a cento all’ora e malediceva il mare piatto in cui era immersa. Sentiva nostalgia di quella vita che non scoppiava mai, degli amori che non aveva mai avuto. Ma non lo diceva neanche alla sua amica. Ascoltava e rideva. Colorava quei racconti con pezzi di canzoni che uscivano come un jukeboxe, sempre perfette con le note giuste sulla storia giusta.
Faceva da colonna sonora, da sottofondo.
Domani sarà tardi per rimpiangere la realtà, è meglio viverla… Gabri come sei splendida, Gabri adesso smettila…
Tornando a casa, non poteva fare a meno di girare in via Bellini ogni sacrosanta volta.
Doveva passare sotto casa di Adam, fare quel tentativo quotidiano, quasi una scaramanzia. Adam era il ragazzo di cui era innamorata a senso unico, ma Giulia era sicura fosse il suo destino e che un giorno avrebbe bussato alla sua porta. Doveva farsi trovare pronta.
Era nato a Parigi e da piccolo aveva girato il mondo grazie al lavoro di suo padre. Parlava inglese, francese, portoghese e spagnolo e aveva sempre storie mozzafiato da raccontare. Ascoltandolo potevi assaporare le banane fritte di Lima e sognare grandi aurore boreali. Adesso studiava economia in Bocconi, non per ambizione, ma per compiacere mio padre, sapete, ma sotto sotto ho un… come si dice in italiano? Ahm sì: ribelle. Un cuore ribelle.
Lei si scioglieva, adorava la sua R accartocciata e rimaneva imbambolata a fissare le sue labbra sottili di baguette, come se non avesse mai visto labbra prima.
Con un pizzico di amarezza, riusciva già a immaginarlo in giacca e cravatta, soddisfatto e con il sorriso bianco e dritto, dentro a un bell’ufficio al dodicesimo piano di qualche multinazionale, con la poltrona presidenziale, il ficus all’ingresso e tutto il resto.
Lo voleva lo stesso per sé, pensava a come avrebbero riso felici dopo aver finalmente fatto l’amore, magari a mille metri, davanti al caminetto della sua baita a Chamonix.
Aveva le spalle larghe, lineamenti alti e geometrici, un porro sulla narice destra che lui raccontava fosse il regalo di uno stregone, una protezione ricevuta una notte, in una favela di Caracas, in cambio di una gentilezza a una vecchia con i capelli bianchissimi e senza denti. Giulia lo trovava ammaliante, l’imperfezione che faceva quadrare il quadro.
E le piacevano da morire le felpe striminzite e dai colori brillanti che Adam indossava come una bandiera, quelle felpe anni Settanta con la zip che si comprano nelle bancarelle dell’usato vicino ai Navigli. Ne aveva una anche lei, era gialla e blu, l’aveva scovata in fondo all’armadio in casa della nonna. Aveva due buchi di sigaretta sul polsino e uno sul cuore, e lei se ne era innamorata istantaneamente (dei tre buchi probabilmente), ma faceva ridere avvolta in quel fascio di poliestere. La cerniera le faceva due gobbe, una sulla pancia, l’altra sul seno, entrambi troppo gonfi, e le strozzava la gola. La magrezza non era il suo punto forte.
«Giulia dal gusto di Sud America» aveva detto una volta Adam, ma lei mica aveva capito subito.
«Come il Che e la Poderosa!» era arrossita e si era fatta piccola piccola, scoppiando a ridere da sola per nascondere l’imbarazzo.
«No, come la banana Chiquita!»
A quel punto avevano riso tutti.
Giulia aveva stretto i pugni nei pugni, aveva sentito nostalgia di quando era semplicemente invisibile.
Viveva nella via più lussuosa del paese al confine con la città, nel palazzo più alto, con il giardino più grande. Il padre di Adam era un dirigente della società del metano e lui era costretto a fare una vita che non gli si appiccicava addosso, diceva.
Giulia pensava che è vero, sì, siamo album di figurine, barattiamo le facce quando le abbiamo doppie e non sempre ci completiamo.
Nel box di Adam erano parcheggiate, pronte per lui, una Harley Davidson e una Giulietta rosso fuoco, il modello degli anni Cinquanta che deve il nome a Shakespeare. L’aveva cercato su wikipedia: andava proprio da Romeo, quella Giulietta.
Un po’ come lei.
Le piaceva pensare che le auto fossero un segno scritto dal destino, un anello che li univa inevitabilmente.
Suo padre aveva una piccola officina tra le fabbriche, l’aveva costruita pezzo per pezzo, dormendo le notti su una brandina quando neanche c’erano i soldi per un guardiano notturno e lui e sua madre passavano Natale e Capodanno lì dentro, facevano pic-nic abbracciati sotto le torce del ponte sollevatore.
Lei era cresciuta là in mezzo, tra macchine da rottamare, tute da meccanico sporche di grasso, il dash per lavarsi le mani dal nero che ti entra nelle impronte digitali, i calendari con le donne a gambe aperte che sbirciava di nascosto, le collezioni di Quattroruote allineate sugli scaffali in salotto. Quando entrava in officina, i ragazzi la trattavano come una principessa e lei si sentiva a casa.
A Giulia non interessavano davvero, le auto. Voleva cantare nella vita, voleva i microfoni, le sale prove e i sound check, la musica era il solo posto in cui usciva allo scoperto. Ma le auto erano roba sua comunque. Erano quella cosa che ha a che fare con la carne.
Per questo, ogni giorno con la sua Regata color fogna faceva almeno due giri di quell’isolato, sperando che Adam scendesse proprio in quel momento a portare Buckley a pisciare. Buckley era bianco e morbidissimo, grande e con il naso rosa, ma non gli scappava mai da pisciare quando lei passava in via Bellini. Non succedeva proprio mai.
Spesso si accontentava di vedere parcheggiata nelle strisce residenziali la Panda scassata che Adam usava per muoversi tutti i giorni, pur sempre un segno della sua presenza, un indizio. Se era parcheggiata, Giulia sapeva che lui era in casa e poteva immaginarlo nella sua stanza bellissima e perfetta, lui, bellissimo e perfetto a studiare per il prossimo esame, concentratissimo, mentre si accarezzava il naso e il suo porro magico, per dimostrare al mondo che quando vuole qualcosa, Adam Dubois la ottiene.
In realtà, da via Bellini Giulia ci passava pure se doveva andare a prendere Luca in piscina, o a fare la spesa, o a salutare nonna Evelina che tanto erano anni che non la riconosceva più. Certe volte era proprio la nonna che la invogliava ad andare là sotto, ad aspettare. Faceva diventare più largo il buco che aveva, lo smagliava.
La scena era sempre più o meno la stessa.
Giulia entrava nella stanza di Villa Liliana con il fiatone, il cuore agitato e il sangue alla testa. L’idea che quel posto fosse diventato la casa della nonna, le stringeva ogni volta i muscoli interni.
Sulla porta della stanza 16, preparava il sorriso, «Buongiorno, Generale!» e le accarezzava i capelli vaporosi di una volta, candidi come i denti appena spuntati di un bimbo.
Le spiegava ogni volta inutilmente che sì, era Giulia, la sorella di Silvia e Luca, la nipote di mezzo, quella che studia il greco e il latino, ma mica troppo, però mi piacciono i dischi.
Lei la guardava negli occhi lucidi e diceva «che belle le risate nei tuoi occhi, tesoro».
Senza dirle ciao, o che.
E lei non aveva il coraggio di dirle che stava piangendo, le faceva una carezza, «che freddo che c’è fuori, nonna, mi lacrimano addirittura gli occhi!»
Nonna Evelina staccava un attimo l’attenzione dal mondo e leggeva altre due pagine all’indietro del Uilbursmit, il suo libro preferito, quello che ha nel titolo la notte e un leopardo.
E l’avrebbe guardata anche per ore, mentre lei non la guardava.
Vorrebbe ancora poterla guardare per tutte le ore che non ha potuto farlo, per tutte quelle volte che era seduta sul suo letto e lei in carrozzina, per tutte le volte che è stata lontana con la testa e per tutte le volte che l’ha convinta a mangiare mentre lei faceva i capricci peggio di una bambina.
Poi Evelina si ricordava che la nipote era lì, tornava a piantarle gli occhi negli occhi e le faceva una delle solite domande:
«Ma tu mica ce l’hai il fidanzato, vero?»
Giulia tirava su col naso e come al solito le rispondeva «no, nonna, non ce l’ho il fidanzato, non lo so perché però…»
«Bene, brava fai molto bene. Devi viverti la tua vita felice e pensare a te. Io potessi tornare indietro mi sposerei tardissimo, o magari mai, sì mai.»
E lei non glielo diceva che non lo so, nonna, insomma, certo hai ragione però tante volte sai, mi sento così sola e vorrei che qualcuno si prendesse cura di me e delle mie paure, facendomi ridere magari. Tu non hai mai paura, nonna?
Lei faceva un bel sorriso soddisfatto della sua nipotina e poi le chiedeva di Attilio.
Chiedeva sempre di Attilio e a Giulia mancava il coraggio.
«Ma dov’è l’Attilio? Mi hanno detto che è andato al bar, ma sono mesi che è andato al bar e non torna mai! Insomma dovresti dirglielo che basta bere, io lo aspetto che dobbiamo andare a casa, dobbiamo tornare in Baia!»
Giulia faceva un lungo sospiro per cacciare indietro le raffiche che già da prima tentavano di invadere gli occhi.
In silenzio.
Allora lei le chiedeva se le andava di cantare e fuori smetteva di urlare quel diavolo di vento e si stringevano forte la mano, la nonna le faceva un occhiolino e Giulia si sentiva bene come solo con lei succedeva.
Quel mazzolin di fiori, che vien dalla montagna…
Poi usciva di corsa, passava in via Bellini, per vedere se quel buco si sarebbe riempito finalmente con una coincidenza fortunata.
Al semaforo svoltava a sinistra, rallentava davanti al numero 21, parcheggiava e fumava una sigaretta.
Di Adam nessuna traccia. Allora premeva il palmo della mano sul clacson, lo lasciava sfogare.
Beeeeeeeeeeeeeeeeepppppppppppp
Beeeeeeeeeeepppppppp
Beeeeeeeeeeeeepppppppp
Beeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeepppppppppppp
Non si arrendeva, ci passava ogni volta che poteva. Come una rassicurazione, come un’abitudine.
In fondo cosa sono le storie d’amore se non quotidianità?
Si innervosiva per questi suoi modi, ma non riusciva a fermarli. Pensava che se l’avesse incontrato davvero non avrebbe saputo che cosa dirgli. Come glielo spiegava? Che ci faceva lì?
Ma tanto, Adam non lo incontrava mai. Di certo non per caso, neanche se passava proprio sincronizzata con gli orari in cui lui andava a giocare a rugby o da Ernesto a fumare i cannoni insieme a Michele, sempre pronto a stropicciare Guccini con la chitarra tra le mani.
La casa di Ernesto era una bella villetta nella periferia della periferia, con i cani in giardino e il dondolo, tanti libri e una taverna di divani e tappeti che lui aveva trasformato nella tana perfetta per sé e gli amici. Era una casa aperta al vento, la gente entrava e usciva che sembrava sempre primavera.
Lidia, la madre di Ernesto, era un’insegnante delle elementari innamorata di Montale; il padre, Alberto, era il sindaco del paese al confine con la città, ci teneva molto ad essere amico di tutti, soprattutto da quando L’Ulivo aveva sempre meno amici.
In quella casa Giulia ci andava perché era amica di Isa e lei era uno schianto, li faceva morire tutti, entrava e toglieva l’aria dalla stanza, rideva, baciava, i miei uomini, diceva con voce da Hello Kitty e loro erano suoi.
Lei arrivava dietro, era quell’ombra senza la quale le cose non sono vere nel mondo, non faceva rumore.
Quando era passata almeno mezz’ora di Isa, delle sue labbra e delle mini gonne ricamate, il padrone di casa si accorgeva di Giulia.
«Ehi ci sei anche tu! Prendi da bere» le diceva Ernesto spegnendo la canna nel portacenere multicolor dipinto a mano a Cuba. Indicava il tavolo e le bottiglie mezze vuote in fila.
Lei abbozzava un sorriso, si faceva rossa e fingeva di versare due dita di vodka in una tazzina di caffè sporca, ma versava acqua e non beveva neanche quella. Non scendeva niente, in gola.
Lidia compariva dal nulla e vedeva Giulia prima di tutti, apriva un sorriso grande.
«Tu sei giusta, hai gli occhi pieni» le aveva detto una volta sottovoce vicino ai capelli, lasciando nell’aria che le separava una scia profumata di iris. Con lei Giulia sentiva che della vita non sapeva niente, ma sperava che Lidia, di lei, avesse capito tutto.
«Ho la tua poesia, aspetta, l’ho appena letta!» e aveva sfogliato veloce il libro che aveva tra le mani.
Giulia guardava quella copertina cartonata gialla, con il quadrato rosso e grande in alto, come se quella tipografia spessa MONTALE fosse il giudizio universale e il rumore di quelle pagine consumate infliggesse sciabolate.
«Forza, vediamo se ho ragione… leggi!» Lidia aveva già trovato la pagina che cercava e le aveva girato il libro tra le mani, come un boomerang.
«Ma io… veramente…»
«Fatti sentire, sarebbe ora! E poi sono certa che ti piacerà» le aveva fatto un occhiolino.
A questo punto smetti, dice l’ombra. La voce di Giulia tremava un po’, sottile e impacciata, ma Lidia aveva fatto un cenno con la testa, compiaciuta.
T’ho accompagnato in guerra e in pace e anche nell’intermedio, sono stata per te l’esaltazione e il tedio…
Nel caos della taverna, improvvisamente si era creato un buco di silenzio, come quando, nel bel mezzo di un locale affollato, tutti si azzittiscono nel momento esatto in cui dalla tua bocca esce una parola tipo: cistite. Si erano fermati tutti quanti ad ascoltare e Giulia era diventata rossa, sprofondando nel divano.
Isabella guardava il caminetto spento, in diagonale.
Il tuo peggio e il tuo meglio non t’appartengono e per quello che avrai puoi fare a meno di un’ombra. A questo punto guarda con i tuoi occhi e anche senz’occhi.
«Prendiamo una pizza?» Adam si era alzato di scatto, avvicinandosi al frigorifero, e muoveva nell’aria il volantino di Pizza Kebab Napule’, con il telefono già in mano e gli occhi rossi per la chimica.
Poi Michele si era passato la mano intera tra i riccioli biondi e un po’ unti.
DO SOL LA minore, attaccava l’Avvelenata con gli occhialetti tondi sul naso, le corde vocali di Giulia stridevano e, senza aggiungere una parola, cominciava a cantare.
Ma se io avessi previsto tutto questo, dati cause e pretesto, forse farei lo stesso.
***
Piove fitto, sulla periferia della periferia. Giulia si parcheggia proprio lì, sotto al numero 21 di via Bellini. La radio si mangia la sua musicassetta preferita, Ben Harper canta Roses from my friends strizzando la gola. Il nastro ormai consumato dalle troppe registrazioni una sull’altra, crepita. In love with hurricanes è la compilation che ha fatto per inaugurare la sua macchina, i diciotto anni, la vita che adesso doveva proprio venire a prenderla.
Accende tre sigarette di fila, il vetro si appanna, la pioggia martella il tetto. Vorrebbe fossero petali di rose quelli che cadono dal cielo, ma l’acqua è una scarica di sassi sulla Regata.
Piovono spine, si incastrano nel tergicristallo, non si lavano via.
The stones from my enemies, these wounds will mend, but I cannot survive the roses from my friends.
Si pulisce la voce raschiando la gola e inizia a cantare forte, fa rimbalzare il testo della canzone sul palato, lo sputa fuori dal diaframma, con rabbia, insieme al fumo che ha nel torace.
Si immagina sirena, strega di Odisseo, maga, fata, combattente resistente.
Ci sono persone che ci mettono una vita a incontrarsi, pensa Giulia respingendo indietro le lacrime a suon di note, che sarà mai qualche goccia di attesa per aiutare il destino.
È una specie di solitudine sporca e rumorosa che impregna anche i sedili della vecchia Regata.
Dopo quasi un’ora, Giulia accende il motore. Ingrana prima e seconda quasi all’unisono e sgomma fuori dal parcheggio, con le mani che tremano sul cambio.
Corre dritta verso l’imbocco della tangenziale. La ovest è la sua preferita, con le tre corsie e l’idea che lì in fondo, da qualche parte, ci sia il mare. Alza il volume, accende una sigaretta, spinge sull’acceleratore, consuma l’asfalto fino a che la tensione non scende. Nella testa imbastisce il solito monologo interiore con Adam, tutto quello che gli direbbe se.
Se per una maledetta volta le coincidenze coincidessero.
Si sente un enorme scarabocchio ingombrante. Pensa alla differenza che fa il modo in cui sei quando incontri le persone. Il colore che hai addosso, l’energia che emani quel giorno, o se è una questione di odore. La fetta di vita che stai tagliando. A come si ricordano di te e decidono se hanno spazio o meno. Voglia o meno. Tempo o meno. Luoghi comuni che decidono se sei stregato o sfigato.
Non hai mai sentito dire che la bellezza delle cose ama nascondersi?, grida insieme a Carmen Consoli dentro la compilation.
All’altezza dell’Aquafan, prende l’uscita e alla prima rotonda della Milano-Baggio rigira il muso della Regata e inforca la tangenziale nel senso opposto.
Il monologo nella testa di Giulia continua, sono accuse adesso e i suoi occhi fanno le stelle: quando incrocia i fari in direzione opposta vede bagnato.
Al confine con la città, inverte di nuovo il verso della tangenziale e ricomincia il percorso.
Lo ripete tre volte, avanti e indietro, fino a che in testa non ha altro che silenzio. Fuori dalla Regata ha smesso di piovere.
Sono le undici ormai.
Giulia schiaccia sull’acceleratore, 140 chilometri orari, è ora di chiudere in fretta un’altra giornata senza senso, tirare il piumone fino alle orecchie e far entrare il sonno e niente più. Il cruscotto della Regata trema per la velocità, sembra voler lanciare in aria tutti i bulloni e prendere il volo.
Mentre entra ed esce da questo pensiero, la Punto rossa davanti a lei perde la linea retta che stava seguendo, sbanda prima a destra poi a sinistra, disegna una striscia di scintille contro il guardrail e impazzisce. Giulia riesce a superarla giusto un attimo prima di seguirla nello schianto dallo specchietto retrovisore. La Punto fa un giro su se stessa e si ferma con un boato fortissimo contro l’altro guardrail, si ribalta in una nuvola fumosa.
Giulia si sposta veloce sulla destra, si ferma sulla corsia d’emergenza con le orecchie che fischiano per lo spavento, le manca l’aria e le mani tremano sul volante.
Dopo un tempo che le sembra lunghissimo, trova il coraggio di aprire lo sportello e scende, affonda i passi terrorizzati nell’asfalto buio della tangenziale.
Intorno alla Punto c’è già qualche persona con le mani in testa, sulla bocca, lungo i fianchi.
Giulia intravede il braccio di una donna che tocca la strada dal finestrino a testa in giù. Il suo occhio si ferma sulla mano. La fede e un grosso anello verde incastrati tra l’indice e il medio di quelle dita con le unghie rosse, un bracciale al polso, Stefania le sembra di leggere tra quelle perle sporcate.
Un uomo sta chiamando i soccorsi, urla concitato «Opera, all’altezza di Opera», mentre altri due cercano di aprire la portiera incastrata, ricevere una risposta dalla donna stretta tra l’abitacolo e il finestrino in frantumi.
Giulia si avvicina ancora un po’, con le gambe che cedono.
«Posso fare qualcosa?» sussurra al ragazzo con la giacca militare che gira intorno alla macchina.
Lui non le risponde, non la sente.
«Posso fare qualcosa?» chiede all’uomo che stava chiamando i soccorsi.
Non le risponde neanche lui, si muove nervoso avanti e indietro, come se il suo movimento potesse spostare quello che ormai rimarrà steso per sempre sull’asfalto.
«Posso fare qualcosa?» sussurra in mezzo alla gente che fa cerchio intorno all’incidente.
«POSSO FARE QUALCOSA?» inizia a urlare con tutta la voce che ha in gola. «CHE CAZZO POSSO FARE? CHE POSSO FAREEE?»
Nessuno si preoccupa di lei e Giulia si siede nella corsia di mezzo, con il petto che sobbalza, le manca l’aria, vaffanculo, pensa. Le sembra di sentire la musica che esce dalla radio nella sua macchina.
Poi, alle sue spalle, una sirena entra nel timpano, è un suono lontano che in un attimo diventa vicinissimo e copre tutto. Le luci blu roteano sul cielo e invadono la tangenziale.
Tre uomini della croce rossa scendono correndo dall’ambulanza e si fanno largo tra la folla.
Lei si alza in piedi tra gli scossoni, torna verso la macchina e accende il motore, riparte lentamente.
Lo specchietto retrovisore è invaso dai lampi dell’ambulanza, sulla strada qualcuno sta già accendendo torce infuocate. Dalla radio esce solo silenzio mentre il piede trema sui pedali.
Imbocca per l’ultima volta l’uscita della tangenziale, il cavalcavia, la rotonda, scorre veloce sotto le linee dei lampioni, un dosso, due dossi, una rotonda.
Sfinita, preme il bottone del cancello automatico, più volte, sbatte il telecomando sul cerchio del volante, lo punta contro il parabrezza e schiaccia con forza. Non dà nessun segno di vita. Mette in folle, spegne il motore e abbandona la Regata davanti al cancello, in mezzo alla strada, pensando vaffanculo anche a te!
Sul vialetto di casa inizia a correre, come se l’ascensore potesse non aspettarla, come se quella fosse l’ultima corsa. Entra in casa ancora con il fiatone e butta le chiavi sulla credenza vicino alla porta, quel tonfo di acciaio rimbomba fino in cucina, dove il suo posto è ancora apparecchiato e solitario.
Dal salotto, la voce di sua madre e la televisione si confondono nei rimproveri per aver saltato la cena senza avvisare, «almeno accendi il forno che ti abbiamo lasciato il pollo da scaldare!»
Giulia si infila dritta in bagno, chiude a chiave e fruga nel beauty case di Silvia, finché non lo trova: Chanel Rouge Fatal. Si siede sull’asse del water, la mano sinistra con le dita aperte appoggiata sul bordo della vasca, trema ancora un po’ per qualche brivido che arriva dritto dai nervi.
Fa un respiro che le attraversa tutto il torace e inizia a coprire una a una tutte le unghie con lo smalto rosso.
Si guarda la mano, la scuote e ci soffia sopra, Stefania bisbiglia.
Poi comincia con l’altra mano.