Pavone
di Andrea Cannarella

La sede del nuovo lavoro stava a una ventina di chilometri e dopo tre mesi di corriera decisi di comprarmi un’auto. Lo decisi un pomeriggio tardo di febbraio mentre tornavo a casa su quella corriera e guardavo degli imponenti viadotti in cemento armato fuori dal finestrino al far del buio. Il fatto è che non avevo idea di come muovermi per procurarmene una a buon mercato. Non avevo mai posseduto un’auto, il mio conto era quasi a secco e mi credevo poco abile nel contrattare.
Un giovedì quasi all’alba leggevo il giornale facendo colazione al bar e l’occhio mi cadde su un annuncio. Questo signore cedeva la sua Lancia Prisma millettrè dell’ottantacinque che era stata tenuta sempre rigorosamente in garage al riparo dalle intemperie. Il prezzo era stracciato e, benché non sapessi esattamente di che auto si trattasse, quella mattina da era glaciale dove pensavo che avessi tutto da imparare e la vita tutto da insegnarmi, l’annuncio mi trasmise un certo calore.
Erano le sei del pomeriggio e venne ad aprirmi che sembrava appena uscito dal letto. Era piccolo, curvo e tutto bianco, le unghie nere da meccanico o da calzolaio di paese e gli occhi neri e bui che tremolavano come ad aspettare qualcosa di decisivo. Si muoveva a gesti svelti come una marionetta e sorrideva come sorride delicatamente un uomo anziano. Disse che stava studiandomi per capire se potessi essere degno della sua «signorina». Dovette convincersene subito, poiché mi diede le chiavi dopo poco esortandomi a salire a bordo. Facemmo un giro attorno all’isolato e nella mia totale incompetenza decisi che quella cosa avrebbe potuto andare bene. I soldi glieli diedi spicci e lui s’affannò scrupolosamente per convincermi che tutti i documenti erano in regola. Poi misi la prima grattando un po’ e andai.
Lo sportello del cruscotto non si chiudeva e al mattino bisognava tirarci l’aria come nella Vespa e scaldarla un po’ prima di partire. C’era l’autoradio col mangianastri e i tergicristalli che cigolavano clamorosamente. Non so dire bene di che colore fosse quella cosa ma potrebbe avvicinarsi al colore del fango sulla strada quando diventa buio.
Ogni volta che lasciavo la Lancia nel parcheggio dell’azienda un po’ mi vergognavo. M’ero messo in testa di fare colpo sul capo e quel trabiccolo di certo non aiutava. In ufficio mi sforzavo per darmi un gran da fare e mi sentivo freddo e inviolabile credendomi migliore di chiunque altro là dentro e là dentro sembrava ogni giorno una lotta senza quartiere. I colleghi erano dei palloni gonfiati e ai miei occhi apparivano tutti come degli impiegatucci che affondavano pesanti in quelle loro poltrone girevoli ortopediche. C’era solo una ragazza che m’andava a genio. Era una ragazza zoppa e rozza e di maniere per niente contenute che se ne stava tutto l’orario di lavoro a fare telefonate. Quelli della produzione dicevano che zoppicava a causa d’una gamba più corta dell’altra. Si chiamava Carmen e fumava anche in ufficio pure se non era permesso. Sulla scrivania teneva un portacenere strabordante di mozziconi. Anch’io le andavo a genio e alla pausa pranzo ci sedevamo assieme a uno dei tavoli della mensa aziendale. Lei mangiava solo formaggio e cracker. Mangiava solo quello, ogni giorno. Mi parlava con la voce rauca da troppe sigarette del suo stramaledetto cane stitico e del fatto che avesse una gran voglia di cambiare lavoro. Poi ogni tanto iniziava a parlare degli uomini che frequentava. Lei sapeva come stenderli. Diceva che c’aveva una sottoveste tutta di pizzo e che a quelli gli saliva subito il fuoco nelle budella appena la vedevano.
Diceva: «Io sono brava a sparare le seche!»
Diceva proprio «seche» con la c.
Ad ogni modo neanche entrare in confidenza con Carmen la zoppa mi aiutava agli occhi del capo.
Mi misi a lavorare ancora più sodo. Il lavoro me lo portavo pure a casa. In particolare ricordo un sabato pomeriggio che stavo seduto al tavolo della cucina a scrivere una relazione. Ero tutto solo nell’appartamento. Agostina se n’era andata con la madre a far compere in occasione dei saldi. Io me ne stavo lì concentrato in cucina in canotta e mutande col sudore che mi colava dietro le orecchie e la moka che fischiava annunciando il terzo o quarto caffè. A un certo punto udii uno strepito agghiacciante. Pensai a un neonato in uno degli appartamenti vicini e continuai a scrivere lo schema di quella relazione. Poi ci fu un altro grido. Rimasi ad analizzarlo guardando verso il muro. Era un suono strano e lamentoso come di una persona sul punto di morire. Aprii la porta del pianerottolo e suonai allarmato alla vicina. Le chiesi di quello strepito raccapricciante e lei rispose che era il verso d’un pavone che stava nel giardino di una delle ville là vicino. Ormai la concentrazione era persa. Leggevo quello che avevo scritto ma le parole non mi dicevano nulla che avesse un senso. Uscii allora a far due passi. M’ero trasferito da poche settimane a casa di Agostina e il fatto che ora stessi in pieno centro storico dopo essere cresciuto in un quartiere di periferia parecchio difficile mi pareva inimmaginabile.
Continuavo a sentire quel verso che mi scuoteva i nervi. Lo sentivo riecheggiare nella mia testa e non capivo se fossi io a immaginarmelo o se fosse reale. Ero ossessionato. Avevo trent’anni e poche cose di cui farmi vanto e mi convincevo a ogni passo che quel lamento terribile si frapponesse alla mia redenzione.
Seguii la direzione da cui pareva provenire e accelerai il passo. Arrivai davanti a una grande cancellata di ferro battuto. Sul campanello di fianco non c’era cognome, solo delle iniziali. Suonai e mi venne incontro un filippino. Gli chiesi se quel verso che si sentiva in tutto il quartiere provenisse da lì dentro. Lui sembrava non capire e io allora mi misi a mimare un pollo. Il filippino sorrise immergendo nervosamente la mano in quei capelli nerissimi e fittissimi. Intraprendemmo una sorta di conversazione ancora divisi dal cancello, arrancando parole in inglese e mimando qualche parola che non ci veniva in mente. Poi gli feci capire che il lamento di quel pavone mi stava facendo uscire pazzo. Lui mi fece capire che quel pennuto avvoltoio, falco o tacchino c’aveva fame e non sapeva cosa potesse dargli. Chiesi al filippino di lasciarmi entrare nel giardino della villa dove stava il pavone. Lui era riluttante all’inizio ma io riuscii a convincerlo affermando testardamente che pure io ne avevo uno e che sapevo come farlo tacere. M’incamminai sul lungo viale col pensiero fisso di porre fine a quello strazio con ogni mezzo. Pensavo che avrei potuto anche far fuori il maledetto pennuto con un calcio. Poi finalmente lo vidi. Era più grosso di quanto m’aspettassi. Puntava la testa e batteva le ali, faceva davvero paura con quegli occhi luccicanti che si muovevano di scatto ai lati della testa appuntita. Mi ispirava repulsione ma allo stesso tempo m’affascinava. Gli fui davvero vicino e l’uccello di colpo si gonfiò tutto, alzò la coda e s’aprì in un ventaglio di colori. Sfumature d’arancione, turchese, cremisi, rosa, giallo quasi oro… colori infuocati, eccitanti. Ero sgomento mentre ai miei occhi stava offrendosi uno spettacolo cromatico al di là di ogni previsione. Ero letteralmente immobilizzato. Poi mi ricomposi e mi girai verso il filippino.
Lui mi mostrò il sacco che teneva in una casetta per gli attrezzi da giardino. Il sacco raffigurava una gallina che beccava il mangime. Gesticolando vistosamente mi fece capire che quello era mangime per gallina e non andava bene per l’uccello grosso e colorato. Afferrai il sacco e dissi al filippino d’aiutarmi. Rovesciammo il mangime sul ghiaino.
Il pavone zampettò verso la montagnola di becchime e si piegò iniziando a usare a dovere il becco. Rimasi fermo lì qualche minuto guardando i rapidi scatti del suo collo mentre ingurgitava quella roba. Ero ipnotizzato dalla pappagorgia che c’aveva appena sotto al collo e che sobbalzava e ballonzolava tutta. Poi me ne andai fuori di là. Continuai a passeggiare nei paraggi fino a che non diventò completamente buio. Non avevo voglia di tornare a casa e scrivere la relazione. Raggiunsi una zona verde non recintata. Era un sorta di giardinetto di un super condominio di lusso. Mi appoggiai col braccio a un pino e poi iniziai con le unghie a staccare dei grossi pezzi di corteccia. Venivano via come niente.

Questo articolo è stato pubblicato in numero 20 e ha le etichette . Bookmark the link permanente. I commenti sono chiusi ma puoi lasciare un trackback: Trackback URL.