Quell’anno il Deportivo Boorroomba fece quella che probabilmente fu la sua migliore stagione. Credo che a vederlo allora, nessuno si sarebbe mai immaginato che trent’anni dopo la squadra sarebbe finita a giocare in lega dilettanti a causa di malversazioni e sottrazioni di denaro alle quali la sottopose Rodrigo Espandero, il nuovo proprietario. Quello che il giorno in cui si fece eleggere presidente atterrò allo stadio in elicottero e portò con sé tre giocatori colombiani dalla dubbia fama. Rodrigo Espandero era il noto latinfondista, possedeva un’immensa piantagione di ananas nell’entroterra da cui nessuno, mai, vide uscire una sola cassetta di frutta. La cosa avrebbe dovuto dare da pensare alla vecchia società, ma i debiti erano ingenti, le casse vuote, i dirigenti curvi e stanchi, e non sempre le proposte di gente come Rodrigo Espandero si possono rifiutare.
El Sulcio Espandero si faceva annunciare da un odore pungente di brillantina, poi arrivava, i capelli impomatati, le mani calate nelle tasche, uno stuzzicadenti in bocca, e praticamente non parlava mai. Quando parlava lo faceva con una vocetta acuta che non aveva niente dell’uomo. Ma questo era meglio non dirglielo.
Il vecchio Di Prospero, che con Guaniella era stato tra i primi giocatori e fondatori del Deportivo Boorroomba, e che si era opposto fermamente alla vendita del club ad Espandero, fu ritrovato morto una mattina nella vasca da bagno coi polsi tagliati e una lettera di addio, versata a terra come un petalo appassito. Solo, non molti sapevano che Stefano Di Prospero non aveva mai imparato a scrivere in altra lingua che non fosse il suo vecchio italiano stentato, pieno di errori e dialettismi.
La morte di Di Prospero convinse gli altri membri del direttivo ad accettare la proposta e vendere l’intero club a El Sulcio Espandero che ne fece un paravento per le sue attività illecite. O comunque poco lecite.
In ogni caso, nel ‘53 nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo al Deportivo Boorroomba trent’anni più tardi, e i tifosi vissero quella che fu ricordata come La stagione perfetta, perché la squadra sembrava una macchina da guerra. Prima di scendere in campo l’allenatore, Fernando Pereira, che un tempo chiamavano El Ninio Pereira, radunava i giocatori nello spogliatoio, davanti alla statua della Vergine nera di san Rosario, e diceva: «Voi siete il Deportivo Boorroomba. Arrivate dalla peggiore periferia esistente. Se siete riusciti a sopravvivere fin qui è perché ne siete capaci. In campo, davanti a voi, ci saranno undici persone. Non sono fenomeni, sono undici persone come voi. Solo che voi siete il Deportivo Boorroomba, e loro no».
I giocatori non parlavano. Non prendevano quelle parole con la leggerezza dei discorsi retorici, ma ci credevano fino in fondo. Mentre uscivano dagli spogliatoi e andavano verso il campo non ridevano e non scherzavano, lo vedevi che dietro i loro occhi pensavano Siamo il Deportivo Boorroomba. Non giochiamo solo per noi, ma per tutti i ragazzi, e gli uomini, e le madri e i vecchi del quartiere.
Oggi gli uomini che fecero quell’impresa sono quasi tutti morti. Qualcuno ancora si trascina stancamente fino a una pozza di sole che allaga una panchina, e passa le giornate a gettare briciole secche agli uccelli cercando di scaldarsi le ossa. Qualcuno come Ostencio Villadio, che in quel ‘53 era centrocampista del Deportivo Boorroomba. Villadio oggi vive di una misera pensione che gli passa lo Stato per aver lavorato trentasette anni come dipendente delle Poste. La pensione va quasi tutta in sigarette e in giornali ippici. Le scommesse lo hanno rovinato. La moglie lo ha lasciato quando si accorse che da quel vizio non ne sarebbe mai uscito, e i due figli sono anni che non li vede. Oramai scommettere non può più permetterselo, se non contro se stesso; per questo compra ancora i giornali ippici. Eppure in quel lontano 1953, Ostencio Villadio era una delle colonne della squadra. Era bello: alto, carnagione olivastra, con una pettinatura tirata indietro e un ciuffo spavaldo che cadeva in avanti a spaccare in due un sorriso sfacciato che faceva morire le ragazze. Fu il primo a comprarsi una macchina con i proventi dei premi partita.
Era una Giulietta. Una macchina italiana che filava che era un piacere. Gli faceva toccare i 120 sul rettilineo che portava all’entrata di Boorroomba. Che per quei tempi era una velocità folle. Finì che una sera una maiale selvatico attraversò la strada e la macchina si accartocciò contro un albero. Il solo nel raggio di dieci chilometri. Ostencio Villadio uscì illeso, ma di macchine e di maiali non ne volle più sapere.
Villadio, col suo sorriso sbeffeggiante, era l’unico che Fernando Pereira non riusciva a mettere in riga. Ce n’è sempre uno così in ogni squadra. Uno che si crede più furbo. E anche se il vecchio Ninio Pereira lo odiava e avrebbe voluto vederlo incenerito da un fulmine a centrocampo, quando Villadio toccava la palla era la grazia divina. E Pereira si rimangiava le sue bestemmie che gli sapevano di amaro in bocca e i suoi occhi lo costringevano ad ammirare quel fenomeno incredibile e bastardo.
E poi fu Villadio a fornire al Deportivo la sua tenuta grigio-gialla che usa ancora oggi.
«Mia sorella, all’epoca, lavorava in una sartoria. Avevano ricevuto una commessa di trecento bluse per il carcere della contea. Solo al momento della consegna si resero conto che la commessa parlava di casacche grigio-ocra, e non grigio-gialle. Il direttore del penitenziario, che era uomo particolarmente pignolo, si rifiutò categoricamente di ritirarle e obbligò la fabbrica a fornire le divise del colore espressamente domandato. Mi sorella arrivò un giorno a casa con una trentina di quelle casacche, il padrone gliele aveva date in pagamento degli straordinari a cui non sapeva come far fronte. Così ce le adattò e ancora oggi, quella, è la divisa del Deportivo Boorroomba. Ecco. Forse non tutti sanno che la squadra gioca con divise da carcerati.»
Ostencio Villadio aveva cominciato a giocare a calcio fin dalla culla, almeno così è come la racconta lui ai pochi che hanno ancora voglia di starlo ad ascoltare. Racconta che ci fu un tempo in cui il calcio era sport per mascalzoni e faccesporche. Le persone per bene avevano altri interessi. Quelli dei quartieri alti giocavano a tennis, nelle loro divise color panna, e tiravano di dritto e di rovescio con gran classe e signorilità. Era uno sport dove non c’era il contatto fisico, il tennis. Si poteva giocare con le ragazze e poi andare insieme a sorseggiare una limonata fresca al bar del circolo.
Il calcio, invece, si praticava per la strada. All’inizio non c’erano campi dove giocare. Erano due maglioni per terra, oppure il cancello di una villa da cui puntualmente si veniva scacciati dai guardiani inferociti.
In campagna era diverso: si poteva andare nei prati, o sui pianori o persino nel deserto, ma in città non avevi alternative. Dovevi ritagliarti uno spazio nel cemento, tra le imprecazioni dei grandi, i conduttori dei tram e i pescivendoli che trainavano i loro carretti.
Il campo, poi, non aveva confini. Tutto era campo, tutto era gioco: il muro, i lampioni, i passanti, le discese, le scalinate, le salite. Tutto. Ci si batteva a gomitate e calci sulle caviglie per portarsi via il pallone.
A volte la palla finiva dentro un bar, o in un negozio, allora i più temerari la inseguivano anche lì; certo rischiavano le sberle dei grandi o un calcio in culo, ma se uscivano interi si erano conquistati il pallone e il rispetto della squadra. Per questo, di solito, erano gli ultimi arrivati, o i più piccoli, che si lanciavano all’inseguimento.
La traversa era misurata a occhio e variava col variare del portiere. Più era alto, più cresceva la porta. Fino a dove poteva saltare. Non era raro che si finisse in rissa, con pugni e magliette strappate. Il che voleva dire prendersene ancora quando si rientrava a casa.
Ostencio Villadio era già un piccolo campione all’epoca. Tra quei ragazzini di cui, non pochi, diventarono poi campioni sul serio, come Rio Tindaro che giocò nel Real alla fine degli anni ‘40, o Pierce che finì allo United. Venivano tutti da lì. Da quell’incrocio tra la Ventisettesima e l’ospedale di Boorroomba. Erano figli di immigrati di tutte le razze e di tutti i colori. Gente con la schiena spezzata dal lavoro di una vita. Le madri grasse, che con i pugni sui fianchi e le maniche arrotolate guardavano quei ragazzetti rientrare a casa la sera, e scuotevano la testa pensando a che perdita di tempo fosse stare fuori tutto il giorno a tirare calci al pallone.
«Vedrai che un giorno ti comprerò una casa tutta per te!» diceva Ostencio Villadio alla sua vecchia quando tornava a casa. Lei non ci credeva, anzi, buttava le mani dentro la pentola sporca e grattando teneva il broncio, ma poi Ostencio la abbracciava da dietro e la chiamava Mamacita, e lei si lasciava andare a un sorriso dolce. Allora Ostencio la sollevava in aria, quel donnone che si metteva a ridere e urlare e le diceva: «E ti comprerò un letto tutto d’oro e avrai tre cameriere e sette stanze da bagno e la felicità non ti abbandonerà mai». Lei gridava: «Mettimi giù disgraziato!» ma rideva ed era contenta e amava suo figlio.
Gli altri due fratelli di Ostencio già lavoravano alla fabbrica di trattori che distava due ore a piedi da Boorroomba, e da mesi lo reclamavano. Due braccia in più fanno comodo, sono soldi che entrano. Ma lui più che alle braccia, era alle gambe che pensava. E dei soldi ne aveva quanti ne voleva, o almeno quanti riusciva a tirarne su pescando in fondo alla borsa della madre. Quel tanto che gli bastava per un cinemino e una gazzosa con una ragazza. Gli sono sempre piaciute le ragazze, non c’è niente da fare.
Un giorno, sentite questa, un giorno stavano giocando la semifinale contro l’Harbour Hill. La squadra che avesse vinto sarebbe passata in finale, e di lì avrebbe potuto fare il salto di categoria. Mancavano cinque minuti all’inizio e di Ostencio ancora nessuna traccia. Pedrosa, il suo amico e compagno di reparto, continuava a fare la spola avanti e indietro tra gli spogliatoi e il cantone della strada. «Ancora niente?» chiedeva Pereira fumando una sigaretta via l’altra. «Niente ancora» rispondeva Pedrosa. Allora l’allenatore faceva una tirata alla sigaretta che la consumava tutta, gettava via il mozzicone e se ne appicciava un’altra. Pedrosa correva al cantone e rientrava. «Ancora niente?» Il ragazzo scuoteva la testa, «Niente ancora». Un altro tiro e via di seguito.
Insomma, alla fin fine la squadra scende in campo in dieci. A quel tempo mica c’erano le riserve e le riserve delle riserve. Giocavi con quello che avevi. E in dieci cominciano a darsele di santa ragione con l’Harbour Hill. Finiscono il primo tempo sull’uno a uno. Una rete su calcio d’angolo per loro, e una staffilata di destro da fuori area di Pedrosa per il Deportivo. All’intervallo, l’allenatore era nervoso: «Allora?»
«Niente» risponde Pedrosa.
«Accidenti a lui!»
E mentre l’allenatore lo stava maledicendo, Ostencio Villadio se ne stava nell’ultima fila del cinema Modern di Portobello a palpeggiare i tondi e floridi seni di una sedicenne in fiore che gli si concedeva con scarsa ritrosia. A un certo punto Ostencio si tirò su e nella penombra azzurrognola del proiettore vide l’ora: «Porca!…» esclamò e saltò in piedi. «Dove vai?» gli chiese la ragazza. «Ho una cosa da fare, aspettami qui, ci vediamo per il secondo spettacolo.»
Uscì a gambe levate dal cinema, si lanciò giù per i vicoli di Portobello, prese la salita di Herny street, scollinò e ridiscese giù verso i campi sportivi. C’erano tre chilometri buoni. Quando arrivò erano al ventesimo del secondo tempo e il risultato era di due a uno per l’Harbour Hill. Si cambiò al volo ed entrò in campo tra le bestemmie e le imprecazioni di Fernando Pereira. «Dove cazzo sei stato Villadio?»
Intercettò una palla sulla tre quarti, si liberò della marcatura del diretto avversario, Pedrosa gli chiedeva l’appoggio, ma lui ne superò un secondo allungandosi la palla sulla sinistra e da dieci metri buoni fuori area lasciò partire una rabona che scavalcò il portiere in uscita e si infilò sotto la traversa.
I compagni lo soffocarono di abbracci mentre Fernando Pereira aveva buttato il cappello per terra e continuava a imprecare gridandogli: «È l’ultima volta che giochi con noi Villadio, l’ultima volta!»
Villadio segnò altre tre reti e all’ottantottesimo, quando il risultato era al sicuro, uscì di corsa dal campo con Pereira che urlava: «E adesso dove vai Villadio, dove cazzo vai!» e senza cambiarsi corse al cinema Modern in tempo per il secondo spettacolo.
Quell’anno, era il ‘52, la squadra fu promossa in prima categoria, e l’anno successivo vinse il campionato. Il solo che abbia mai vinto in tutta la sua storia. La festa per gli abitanti del quartiere proletario di Boorroomba fu incontenibile. Una settimana di baldorie, balli, musica, alcol e amore libero. Anche Madame Lulù lasciò le porte della sua casa di appuntamenti aperte gratuitamente giorno e notte.
Ostencio Villadio fu venduto l’anno successivo al Barcellona, per una cifra che all’epoca pareva astronomica, però resistette una sola stagione.
Era discontinuo e mancava completamente di professionalità. Non fosse stato per quello, sarebbe diventato il più grande centrocampista di tutti i tempi. Invece passava da partite favolose come quella contro l’Harbour Hill, ad altre nelle quali vagava stancamente per il prato alla ricerca di un’ispirazione qualsiasi. In effetti avevi l’impressione che per lui il calcio dovesse essere qualcosa di simile alla poesia; così, i giorni in cui la magia non suonava alla sua porta rimaneva spento ai margini del gioco. Quasi più dannoso che utile. Per questo non giocò che un’annata nel Barcellona e poi lo fecero fuori senza tanti complimenti. Quando si arriva a certi livelli la poesia non basta, ci vuole impegno e continuità. Ma a lui, non gliene fregava niente. Era fatto così. Poesia e macchine veloci e alberi da impalare.
Rigettato dal Barcellona tornò a casa, giocò ancora qualche anno nel Deportivo Boorroomba facendo impazzire il vecchio cuore di Fernando Pereira, e quando le ginocchia cominciarono a mollarlo e anche il sorriso era diventato più stanco e meno strafottente, trovò allora un impiego alle Poste. Non perse però mai il vizio di scialacquare denaro, così sua moglie lo lasciò nel ‘72 portandosi via i figli. La madre partì qualche tempo dopo di un attacco di cuore mentre era al mercato. Cadde su di un banco di verdura e morì in mezzo ai pomodori. A sua madre, Ostencio Villadio, gliel’aveva poi comprata la casa, e fu l’unica volta in cui spese i soldi in maniera intelligente. Dei fratelli, quasi più nessuna notizia. Si presentò qualche volta alla loro porta per chiedere un prestito e loro lo mandarono a cagare. «Avevi da pensarci prima» gli dissero. Solo la sorella, ancora viva, di tanto in tanto lo va a trovare e gli lascia qualche soldo extra con cui Villadio può comprarsi le sigarette.
Aveva un sorriso strafottente e amava le ragazze, Ostencio Villadio. E quando toccava il pallone lo faceva con una grazia e una delicatezza divina. Fa effetto vederlo oggi, piegato in due su di una panchina, dare da mangiare briciole ai piccioni e poi alzarsi, quando il sole è calato e il freddo comincia a entrargli nelle ossa, e a passi minuscoli e incerti andare piano piano a casa verso una sera solitaria.